Il trattamento del dolore.
C.Blengini Medico Generale - Dogliani (Cuneo)

Perché parlare di dolore nei malati di cancro? La motivazione sostanziale ad una riflessione su questo argomento trae origine dai dati della letteratura a questo proposito:
• più del 75% dei malati con tumore affronta durante il percorso della malattia l’esperienza dolore
• il dolore che si presenta nel malato neoplastico è trattabile adeguatamente per via orale mettendo in pratica una terapia analgesica efficace dall’80 al 90% dei casi.
• esiste un protocollo internazionale validato presente in letteratura ormai da circa un ventennio, che va sotto il nome di scala analgesica OMS, che permette di orientarsi in modo semplice su questo problema e di offrire una adeguata risposta al sintomo in base all’intensità dello stesso.
Nonostante queste premesse il pianeta dolore rimane ancora per molti medici praticamente una terra sconosciuta e sono ancora molti, troppi, gli ammalati che sperimentano durante la malattia un dolore altrimenti controllabile usando con accortezza e in modo opportuno i farmaci analgesici facilmente reperibili sul mercato.

L’obiettivo di questa pubblicazione è quello di fornire agili strumenti di riferimento per cimentarsi concretamente in modo adeguato nella gestione del problema dolore.
Alcune considerazioni di fondo accompagnano il rilevamento della bassa prescrizione di oppiacei che è così particolarmente evidente nella realtà italiana.
1. La prima è sicuramente la paura e la scarsa conoscenza sia degli effetti terapeutici che di quelli collaterali di questi farmaci, che ha fatto sì che ci sia stata da parte della classe medica in tutti questi anni una esagerata e ingiustificata parsimonia nella loro prescrizione negli ammalati di cancro.
2. La seconda riguarda la legislazione sanitaria italiana che disciplina la prescrizione di queste sostanze, che sicuramente non aiuta il medico a ricettarle. Sembra quasi infatti, che il progetto del legislatore di proteggere la comunità dalle possibilità di abuso nell’impiego di questi farmaci, con interventi di prevenzione e controllo del fenomeno tossicodipendenza, si sia rivelato nei fatti più di danno ai malati, che di reale vantaggio nell’arginare il mercato illegale. Non va dimenticato infatti come le sanzioni pecuniarie e penali che sono collegate agli errori formali nella prescrizione e spedizione delle ricette degli oppiacei (che riguardano medici e farmacisti), abbiano in parte contribuito e contribuiscano tuttora alla riduzione della loro prescrizione da parte dei medici, almeno quanto la paura, peraltro immotivata, di possibili effetti collaterali dannosi e/o pericolosi per il paziente.
3. La terza riguarda proprio la presenza anche tra coloro che per mestiere sono definiti "addetti ai lavori", di quella che un autore straniero ha definito magistralmente "oppiofobia". Vale a dire l’incapacità di riconoscere e discriminare nei propri giudizi quelli che sono i riflessi nella propria attività professionale delle paure suscitate nell’immaginario collettivo dalle parole stupefacenti e tossicodipendenza (pregiudizi). Esse nulla hanno a che vedere con l’efficacia terapeutica di queste sostanze, che diventano irrinunciabili nelle fasi avanzate di malattia neoplastica (e non solo) pena, lo scarso o inadeguato controllo del dolore. Si aggiungono a questo paure di effetti collaterali quali la dipendenza psicologica o la depressione respiratoria, immotivate alla luce di dati di letteratura su casistiche sufficientemente numerose da essere esaustive. Anche qui l’equivoco nasce dal fatto di voler applicare a malati con dolore importante, gli effetti di studi su volontari sani, che hanno eseguito la sperimentazione iniziale di questi farmaci.
4. La quarta si riferisce all’evidenza di come il sintomo dolore, che tanta parte ha nella quotidiana esperienza di lavoro nell’ambulatorio medico e nella corsia ospedaliera, abbia difettato fino ad oggi in concreto nella pratica quotidiana di una elaborazione scientifica e di un approccio razionale e sistematico, come è consuetudine per i problemi che il medico si trova con più frequenza a fronteggiare. La sistematicità e la razionalità dell’intervento, così specifica della cultura scientifica in particolare e della medicina in generale, non trova riscontro nella gestione di un problema così importante. Questa osservazione sembra

permeare l’approccio al malato con dolore in modo trasversale e ubiquitario, sia in ambiente ospedaliero che negli ambulatori di Medicina Generale, salvo in alcune lodevoli, anche se esigue realtà in cui esso viene condotto correttamente (dati preliminari di rilevamento dai corsi di formazione per tirocinanti in Medicina Generale).
5. La quinta si riferisce al ruolo sempre più centrale che la figura del Medico Generale sta assumendo nei sistemi sanitari europei e in quello sanitario italiano in particolare. Nel piano Sanitario del nostro paese per il triennio 1998-2000, di recente pubblicazione, l’elemento prevenzione è una leva fondamentale per tentare di ottenere una riduzione dell’incidenza di patologia e la mortalità da cancro. Parimenti viene posta un’attenzione particolare a sottolineare l’importanza della cura del malato di cancro in fase avanzata e all’impiego, accanto alle risorse tradizionali di diagnosi e cura, di quella che va sotto il nome di medicina palliativa. Tutti i paesi industrializzati infatti devono ormai confrontarsi con il problema di risorse economiche non infinite. Il Medico Generale si trova quindi, per la sua tradizione olistica di approccio al malato, ad essere un elemento cardine nella gestione della sofferenza quotidiana e della sintomatologia intesa "in senso lato" del malato neoplastico in fase avanzata. Ci si trova però, in conseguenza di questo, a dover riflettere, senza remore, su quale sia la nostra attuale preparazione in merito a questo tema e su quali siano gli strumenti irrinunciabili da acquisire o perfezionare, per poter svolgere oggi correttamente la nostra professione.
6. La sesta riguarda la totale carenza di progettualità formativa negli ultimi decenni sia a livello universitario che post-universitario per quanto riguarda lo specifico del problema dolore, ma più in generale del problema del malato cronico e del malato che muore. La medicina tecnicistica e trionfalistica di questo ultimo secolo, che ha prodotto successi terapeutici una volta sicuramente non immaginabili, si è dimenticata di fermarsi a riflettere e a far riflettere su come la sofferenza e la morte rimangano a tutt’oggi elementi centrali e sostanziali della storia della malattia di ogni singolo individuo e meritino di essere pensati e ripensati con molta più attenzione e partecipazione. Questo tipo di considerazione diventa tanto più vera per il Medico Generale. Egli, formato inizialmente agli strumenti tradizionali di diagnosi e cura, ha dovuto verificare sul campo, nella quotidianità del proprio lavoro, come all’elemento finale del processo curativo comunemente inteso forse in modo un po’ troppo trionfalistico come guarigione, si sostituisca molto più spesso quello più realistico della cronicizzazione dei sintomi e della malattia.

Ne deriva quindi per tutti noi la necessità di ripensare al nostro bagaglio culturale e di appropriarci di strumenti di lavoro più adeguati che ci permettano di gestire in modo efficace l’ordinario quotidiano. Se, come sembra, la restrizione delle risorse economiche continuerà ad essere sempre più un elemento pressante del confronto sulle politiche sanitarie nei regimi industrializzati, la gestione della cronicizzazione e della malattia terminale in trattamento domiciliare diverrà comunque, insieme alla prevenzione, uno degli elementi centrali della professione. La gestione del dolore può essere un ottimo banco di prova.

Molte esperienze sono state fatte in paesi europei sul come sia possibile modificare positivamente la prescrizione del medico a questo riguardo, offrendo strumenti semplici, adeguati ed efficaci prima per comprendere e inquadrare il sintomo dolore e poi suggerire strategie di intervento, farmacologiche e non, che condividano un approccio razionale al problema.
Occorre pensare, per quanto riguarda l’approccio al malato neoplastico, ad una rivisitazione dei rapporti e dei ruoli, che è elemento sostanziale per poter offrire una cura corretta ed efficace nelle fasi avanzate di malattia. Il consenso informato diventa ben di più di quella che molte volte finisce di fatto con l’essere poco più che una mera e formale adesione a scelte preordinate da altri e in altri luoghi, ma diventa l’elemento centrale irrinunciabile di un’alleanza terapeutica che aiuterà entrambi: medico e malato a portare avanti insieme, con fatica, un cammino irto di difficoltà, paure, ansie ed emozioni.
La capacità di leggersi e farsi leggere, insieme a quella di ascoltare e di partecipare diventa un costituente essenziale di un processo che va al di là del semplice termine curare per sostanziarsi meglio nel paradigma inglese "to (take) care", che significa prendersi cura. In questa logica il dolore da mero sintomo fisio-patologico diventa l’espressione di uno stato di sofferenza esistenziale del malato di cancro, che raccoglie in sé un coacervo di elementi costituenti che si rafforzano o si smussano reciprocamente in funzione della storia individuale di ciascuno, della sua sensibilità, delle sue paure. Nascerà così la comprensione della natura esistenziale del dolore, che ha caratteristiche uniche in ogni malato, ma che ha anche la facoltà di assumere forme diverse e diversa intensità per ciascuno in momenti temporali differenti.
La dicotomia, l’ambiguità e l’alternanza sono meccanismi di relazione che si manifestano spesso nel malato in fase avanzata e richiedono capacità di comprensione piuttosto che di giudizio. La comprensione dei meccanismi essenziali di difesa, come pure la possibilità e il diritto a volere o non volere conoscere la propria situazione esistenziale, il privilegio di poter chiedere e di voler subito dopo negare, restano aspetti peculiari nella fase terminale della malattia.

Questi elementi base della psicologia del morente, insieme ad un sano tirocinio ad osservare le volontà altrui e non proiettare, seppur inconsciamente le proprie, o il prestarsi ad ambigue congiure del silenzio, sono irrinunciabili per potersi proporre come partner in un cammino tanto difficile, e devono essere ben conosciuti.
Tutto questo permetterà di far affiorare e di prendersi cura non solo del dolore e della sofferenza manifesta o gridata, ma anche di quella sommessa, sussurrata, negata. Forse è proprio quest’ultima quella più difficile da cogliere, quella in cui alle urla di sconforto e alla maschera di dolore si sostituisce un atteggiamento di composta rassegnazione, di sommessa melanconia, di paura di manifestare, che va indagato con attenzione e delicatamente portato alla luce.

La dimensione del dolore: il dolore totale
Se il dolore è l’espressione manifesta di una dimensione più profonda di esistenzialità del disagio, non resta difficile capire come ad esso sia stato associato l’aggettivo totale. È infatti proprio questa aggettivazione ad esprimere in modo migliore le componenti che lo costituiscono e lo sostanziano.
Il dolore in questi malati è qualcosa di più e di diverso da quello che più frequentemente rappresenta nel soggetto fino ad allora in buona salute una spia e un campanello di allarme di processi patologici sottostanti (dolore sintomo).
Il dolore rappresenta invece, oltre alla componente di allarme e di evolutività di malattia, l’espressione di un disagio vitale. Non è più e solo un sintomo efficace per favorire misure curative di intervento, ma diventa un modo di essere, di vivere, di percepire (dolore malattia). È questa dimensione che va conosciuta e compresa dal medico nel trattare con il malato terminale.
Sarebbe troppo semplicistico misurarsi con esso solo su un piano neurofisiologico, come pure deve essere, senza comprendere le altre differenti componenti che lo sostanziano. La componente sociale del malato, le sue relazioni parentali, amicali e di lavoro, la sua sensibilità morale e spirituale, le sue credenze, le capacità di autonomia sia fisica che economica fanno da cornice e da scenario alla sua rappresentazione e ne informano in modo più o meno pressante la sua percezione ed estrinsecazione.
È il lento processo di divenire (o meglio di regredire) che lo modella e lo modifica costantemente, un divenire/regredire in questo caso che porta alla percezione di perdite progressive di autonomia, di potere, di capacità di scelta, di movimento, di lavoro, di denaro, di momenti di esistenza serena e spensierata, che conducono in molti ad un’attenzione esasperata se non morbosa a questo processo di progressivo sgretolamento della persona che tanta parte ha nella percezione del sintomo.

La multidisciplinarietà dell’approccio e l’organizzazione territoriale dei servizi

La dimensione così complessa della sofferenza del malato neoplastico e la estrema varietà, difformità e peculiarità dei bisogni, porta alla necessità, in questo caso pressante, di costituire intorno al paziente una rete di soggetti e di strumenti che sia sufficientemente duttile, robusta ed efficace, per contenere e soddisfare le necessità che di volta in volta si presentano all’attenzione dei curanti.
In questa situazione diventa preminente o forse indispensabile per ottenere un risultato positivo, la capacità non solo di lavorare, ma anche quella di progettare in gruppo. In questa logica la dimensione del Medico Generale solo con i suoi pazienti, che è stata ed è ancora in molte realtà la norma, deve lasciare il posto alla coscienza della necessità di un confronto e di una progettualità tra pari, che veda ciascuno di noi impegnato a costruire, con gli strumenti messi al nostro servizio dalla Convenzione, una offerta di servizi e di prestazione multivariate ed integrate.
La forza della categoria sta proprio nella capacità/volontà di riuscire a fare questo salto professionale, che permetta di offrire ai nostri assistiti prestazioni e risultati sempre più efficaci. Solo con la messa in comune di esperienze e professionalità diverse, insieme al confronto di modalità e percorsi di lavoro, si potrà arrivare a perfezionare il servizio di assistenza domiciliare al malato terminale, disegnando ed attuando così uno strumento che sia realmente efficace.
Per fare questo sarà necessario però che il concetto di territorialità dei servizi e delle prestazioni, recepito ormai in molte Regioni e sostanziato da circolari e leggi regionali di indirizzo, non finisca come altre volte per diventare lettera morta, ma venga recepito dai direttori generali delle singole Aziende come un obiettivo prioritario per creare un’assistenza più efficace e più umana al malato, nel rispetto del suo ambiente di vita e dei suoi bisogni.
Anche in questo caso il nostro ruolo va ben al di là di quello di mera attuazione di linee di indirizzo, ma diventa preminente nel suggerire, proporre, richiedere e stimolare le singole Aziende a promuovere la realizzazione di servizi efficienti di assistenza territoriale al malato terminale, provvedendo a reperire le figure professionali indispensabili alla loro attuazione.


Formazione e percezione dello stimolo

Il sistema di percezione e riconoscimento del dolore che va sotto il nome di Pain System è da un punto di vista anatomo-fisiologico un sistema complesso e multintegrato che non fornisce risposte "lineari" stimolo-percezione.
È caratteristica intrinseca della percezione dell’informazione dolore quella di presentare la possibilità di essere modulata a più livelli durante la sua diffusione. Il sistema risulta composto da stazioni intermedie progressivamente ascenti alla corteccia che presentano la possibilità di modulare o semplicemente di trasportare l’impulso.

Anatomicamente risulta composto in modo schematico dalle seguenti strutture:
• recettore periferico
• neurone spinale
• corno posteriore del midollo spinale (zona di modulazione)
• sistemi spino-talamici ascendenti
• sostanza reticolare
• sistema limbico
• aree di proiezione talamo-corticali S1 S2.

Dal punto di vista funzionale il Pain System si articola in tre sottosistemi a proiezione diffusa con specifiche attività neurormonali che sono:
il sistema periferico di trasporto o afferente che si occupa di condurre gli impulsi nocicettivi dalla periferia al centro;
il sistema di modulazione che produce la modifica dell’intensità degli stimoli trasmessi esercitando una riduzione di ampiezza degli stimoli nocicettivi attraverso l’attivazione di sistemi inibitori;
il sistema di riconoscimento che decodifica e interpreta l’informazione pervenuta e predispone le strategie di risposta siano esse motorie, neurovegetative endocrine od emotive.


Il sistema periferico di trasporto
Seppur esista ancora qualche residua controversia tra i sostenitori della teoria "intensiva" o "pattern" e quelli della specificità recettoriale (azione di determinate sostanze su specifici recettori con provocazione di dolore), la posizione più condivisa attualmente risulta essere quella che vede il recettore non come una struttura statica bensì dinamica modulabile per via meccanica, chimica e nervoriflessiva capace di risposte solo tutto o nulla.
Tabella 1.Principali mediatori del dolore
Bradichinine
Ioni K+
Prostacicline
Serotonina
Ioni H+
Istamina
Prostaglandine
Sostanza P

L’elemento che produce lo stimolo induce nel tessuto in cui è presente il recettore la liberazione di mediatori (vedi Tab.1) che determinano un’alterazione dello stato elettrico della membrana del recettore (depolarizzazione), che è il fenomeno che dà l’avvio a cascata al processo di percezione del dolore. L’impulso doloroso si diffonde così dal recettore, per mezzo di fibre sensitive afferenti di diverso tipo, al ganglio spinale e attraverso il prolugamento centripeto di quest’ultimo raggiunge il corno posteriore del midollo spinale.


Il sistema di modulazione
La modulazione dell’impulso doloroso avviene sostanzialmente in due punti anatomici principali:
a livello del corno midollare posteriore: dove si verifica il fenomeno di attenuazione dell’ampiezza degli stimoli nocicettivi ad operare del cosiddetto interneurone inibitore ("teoria del cancello") e dove si proiettano gli impulsi corticospinali inibitori;
a livello del talamo: struttura deputata alla decodificazione dell’impulso nocicettivo che è anche la stazione di proiezione/diffusione di efferenze riverberanti centrali a partenza dalla zona limbica e dalla sostanza reticolare.

Il corno midollare posteriore
In questa struttura è ipotizzata la presenza di una stazione fondamentale di integrazione per la modulazione del fenomeno doloroso. È questa infatti la sede proposta già fin dal 1965 da Melzack e Wall per sostanziare la loro teoria del cancello ("gate control") che ipotizza a livello della sostanza gelatinosa del corno posteriore e in particolare prevalentemente a carico delle lamine I,II; V, la presenza di un centro integrato di modulazione dello stimolo nocicettivo.
Questa teoria perfezionata nel decennio successivo si sostanzia nell’assunto che lo stimolo doloroso formatosi in periferia subisce in questa sede una modificazione di intensità ad opera di un interneurone inibitorio localizzato appunto in questa sede (vedi Fig. 2). Esso agisce con un’azione di interferenza inibitoria fasica sulla trasmissione dell’impulso nocicettivo a livello del fascio spino-talamico che è funzione sia della modulazione dello stimolo ad opera di fibre discendenti talamo-spinali e sia delle informazioni provenienti dalla periferia ad opere di due differenti sistemi di conduzioni.

Le fibre che portano l’informazione dolorosa dal recettore periferico alla successiva stazione midollare si dividono sostanzialmente in:
fibre ad elevata velocità di conduzione, mieliniche, morfologicamente di diametro maggiore, che portano una informazione più mirata e specifica (fibre Að);
fibre a lenta velocità di conduzione, amieliniche, morfologicamente di diametro inferiore alle precedenti che portano invece un’informazione più generica, sfumata e diffusa (fibre C).

L’interneurone che ha solo possibilità di modulazione inibitoria dello stimolo, non trasmette alcun impulso in questo senso al neurone del fascio spino-talamico ascendente in fase di riposo, lasciando così di base aperta la "porta" al passaggi di impulsi sensoriali periferici.
In caso di stimolazione recettoriale periferica con formazione e trasmissione di un impulso nocicettivo la sua trasmissione al corno posteriore avviene prima attraverso le fibre mieliniche a rapida velocità di conduzione che trovano il "cancello" aperto e quindi trasmettono inizialmente l’impulso alle fibre afferenti del fascio spino-talamico ascendente senza che questo subisca alcuna modificazione.
Questa informazione nel trasferirsi alle stazioni superiori di controllo e di decodificazione stimola, parallelamente al suo passaggio, l’interneurone inibitorio che attua immediatamente un’azione di riduzione delle afferenze nocicettive ("chiusura del cancello"). La seconda parte dell’informazione dolorosa trasmessa questa volta dalle fibre amieliniche più lente e che giunge quindi sulla stazione di modulazione con un lieve ritardo rispetto alla precedente, si trova così, per questo fenomeno inibitorio, ad essere trasmessa in misura inferiore per la modulazione difettiva operata dall’interneurone midollare.
Questa sequenza è valida in caso di stimoli di intensità medio-bassa, perché invece in presenza di stimolo nocicettivo di intensità elevata o ripetuto a breve distanza temporale si determina una riduzione della modulazione inibitoria operata dall’interneurone con conseguente passaggio dello stimolo eccitatorio doloroso condotto dalle fibre amieliniche, che va a sommarsi con quello condotto dalle fibre mieliniche aumentando così il numero e l’intensità delle informazioni dolorose che percorrono il fascio spino-talamico ascendente.
È quindi la modifica dell’equilibrio della conduzione degli impulsi tra fibre mieliniche e amieliniche a determinare l’apertura o la chiusura del cancello. Se prevale l’intensità del secondo impulso ritardato amielinico (fibre C) si ha una riduzione dell’azione inibitrice interneuronale e si apre il cancello, viceversa se a prevalere sono gli impulsi precoci a conduzione mielinica (fibre Að) la porta si chiude riducendo così di conseguenza la trasmissione degli impulsi nocicettici ai sistemi di trasmissione neuronali alle stazioni superiori (fasci ascendenti spinotalamici).
La riapertura del cancello determinata dal protrarsi di uno stimolo doloroso intenso, costituisce in pratica da una parte un elemento di difesa attuato dall’organismo per mettere in funzione meccanismi di controllo/evitamento, ma è dall’altra la base per l’insorgenza di quei fenomeni che vanno a determinare quella che viene definita sofferenza psichica collegata al sintomo doloroso.
L’informazione dolorosa raccolta alla periferia dal recettore in qualsiasi parte dell’organismo viene così trasportata al midollo e da qui ai centri superiori in gran parte attraverso due vie che rappresentano la parte laterale e mediale del sistema spino-talamico. Esse formano rispettivamente:
il sistema neo-spino-talamico, di derivazione filogeneticamente più recente, deputato alla trasmissione di informazioni nocicettive specifiche e definite spazialmente che incrocia a livello midollare prima di ascendere proiettandosi con poche sinapsi ai nuclei ventrali posterolaterali del talamo;
il sistema paleo-spino-talamico, di derivazione filogeneticamente più antica, deputato invece alla percezione della sensazione dolorosa meno discriminata e più diffusa, polisinaptico e interconnesso con i sistemi di trasmissione delle strutture vicine, che proietta oltre che ai nuclei inferolaterali del talamo al sistema limbico e a numerose aree encefaliche.
Alla modulazione dello stimolo nocicettico a livello midollare si aggiunge un ulteriore meccanismo di integrazione del segnale rappresentato dalle modulazioni discendenti dei sistemi cortico-talamo-spinali.
Risulta infine utile chiarire che, se nella fisiologia classica le vie ascendenti di trasmissione si ritenevano funzionalmente separate, prevale ora a questo proposito una visione meno statica e sicuramente più vicina alla fisiologia reale. Essa ritiene che l’informazione sensitiva proceda in modo modulato e integrato fino ai centri encefalici superiori e che esista inoltre un’integrazione della stessa con le efferenze discendenti a modulazione inibitoria che producono sinapsi diffuse sul percorso ascensionale di trasmissione dello stimolo.


Il sistema di riconoscimento

Al sistema talamico spetta il compito di decodificare l’informazione dolorosa e di produrre l’integrazione tra le varie strutture cerebrali che partecipano alla sua percezione. È proprio dai nuclei del talamo che partono infatti le proiezioni attraverso cui l’impulso nocicettivo, modificato e modulato opportunamente dalle afferenze limbiche e ipotalamo-reticolari, raggiunge le aree somato-sensoriali S1 S2, in cui si rappresenterà per il soggetto la completa conoscenza del fenomeno doloroso.
La peculiarità della stazione talamica sta proprio nel fatto di produrre anche una riverberazione del segnale doloroso sia alle strutture reticolari che limbiche, responsabili queste ultime dell’elaborazione psico-emozionale del segnale. Sono infatti due i fenomeni che l’impulso nocicettivo produce stimolando a cascata anche queste zone: il vissuto emotivo di sofferenza e di disagio collegato all’esperienza dolore e l’instaurarsi di uno stato ansioso depressivo che connota e caratterizza il fenomeno del dolore cronico (dolore malattia), che accentua la sgradevolezza della percezione sintomatologica a parità di segnale.

Il sistema endogeno di controllo del dolore

L’esistenza di sostanze ad azione morfino-simile, prodotte dall’organismo stesso, che vanno sotto il nome di oppiodi endogeni e dei loro recettori specifici, ha fatto seguito allo sviluppo della ricerca in questo settore avviatasi già nel lontano 1975. Sono così state progressivamente individuate e studiate numerose sostanze di natura polipeptidica che sono raggrupate nelle due famiglie prinicipali delle Encefaline e Endorfine.
Parallelamente sono stati definiti e caratterizzati i recettori endorfinici di cui i principali, codificati con le lettere dell’alfabeto greco, sono: µ (mu), ð (delta) e k (cappa). A questi recettori sono legati specifici effetti biologici e psicologici che sono: l’analgesia dovuta all’interazione con i recettori µ e ð, la depressione del respiro a quella con i recettori k ed infine la disforia di prevalente competenza del recettore ð.
Questo tipo di sostanze sono particolarmente concentrate a livello encefalico nella zona periduttale, a livello midollare, nei gangli del sistema simpatico ed infine nella midollare della surrenale e nell’apparato digerente (responsabili quindi anche della modulazione dei fenomeni neurovegetativi e di motilità gastrointestinale legati allo stato di allerta che si associa alla percezione dolorosa). La loro produzione è incrementata dalla secrezione di ACTH, mentre è drammaticamente ridotta, per elevato consumo, in presenza di stati ansiosi o depressivi.
La funzione caratteristica degli oppiodi endogeni sembra essere quella di sistema integrato di neuromodulazione centrale. Esso serve infatti a produrre un controllo inbitorio lungo le vie di trasmissione, prevalentemente sugli impulsi ascendenti di natura nocicettiva. Questo avviene sia a livello del corno posteriore midollare, che in altre stazioni del sistema nervoso centrale, attraverso sistemi discendenti serotoninergici e adrenergici ad azione di blocco sull’informazione ascendente.
Dalla scoperta di questo eco-sistema analgesico endogeno ha preso il via l’ipotesi che vede la percezione del dolore come l’espressione di un equilibrio dinamico, con opposto effetto, tra stimolazione nocicettiva dei recettori del dolore e dei recettori endorfinici. È in questa logica che si viene a definire il concetto di soglia del dolore individuale, che ha caratteristiche peculiari per ciascuno ed è soggetta ad essere variabile e fluttuante con la situazione di equilibrio psico-fisico del paziente.
Non va quindi dimenticato come alla luce di queste considerazioni il dolore rappresenti sempre il frutto di un’alterazione dell’equilibrio dinamico tra i due sistemi contrapposti, dovuto ad un aumento delle afferenze nocicettive o ad una riduzione dell’effetto protettivo endorfinico o ad una combinazione dei due effetti (Fig. 3).

L’intervento del medico di fronte al dolore (come fare e cosa fare)

L’approccio al dolore per essere efficace e produttivo deve seguire sempre un algoritmo predeterminato e progressivo, scadenzato da precise tappe di osservazione, valutazione, analisi ed intervento. Ci sembra che possa essere utile schematizzare questo processo di approccio al sintomo in un percorso a cinque tappe che può essere applicato, a qualsiasi tipo di dolore. Il percorso di approccio al malato con dolore è il seguente:
riconoscere e definire il tipo o i tipi di dolore a cui ci si trova di fronte;
localizzare e definire la sede e la natura del dolore, chiarendo se sia di tipo diretto o riflesso;
quantificare la sua intensità soggettiva, la sua durata e il suo andamento sulla base dell’esperienza del paziente. Questa terza fase, indispensabile per un corretto trattamento del sintomo, serve a codificare la parte del percorso diagnostico centrata sul malato. È rappresentata dalla percezione dell’evento da parte del paziente, che risulta profondamente influenzato dalle precedenti esperienze dolorose, dallo stato d’animo e dall’equilibrio psico-fisico di quel momento. Esso risulta unico ed irripetibile. Di qui la necessità di non applicare schemi preformati di stima, ma di stare ad ascoltare con attenzione il racconto del malato, puntualizzandolo con domande volte a caratterizzare in modo riproducibile intensità, caratteristiche e durata riferite;
analizzare e valutare attraverso un’attenta anamnesi ed un esame obiettivo le caratteristiche peculiari che definiscono la sintomatologia e il risvolto che questa ha sulla attività motoria del paziente, sulla sua qualità di vita e l’influenza che esso determina sullo suo stato emotivo-affettivo. In questa quarta fase che rappresenta l’elemento oggettivo del percorso diagnostico guidato dal medico, si provvederà inoltre a valutare la congruità tra elementi soggettivi ed oggettivi di rappresentazione della sintomatologia algica;
rimuovere se possibile le cause e quando questo non risulti possibile provvedere comunque al trattamento sintomatico, impiegando quei trattamenti farmacologici o non farmacologici che si riterranno di volta in volta più adeguati.

L’opportunità di definire un linguaggio (semantica del dolore) che sia comune e facilmente riproducibile diventa un elemento essenziale per permettere ai diversi soggetti che a vario titolo entrano nella gestione del sintomo di interagire tra di loro in modo affidabile. Esso permette oltre alla valutazione/definizione eziopatogenetica del processo, di garantire che il quadro venga rappresentato e percepito da tutti gli operatori secondo una scala di valori uniforme, condivisa e facilmente comprensibile.
La codificazione unitaria del percorso sintomatologico, della sua entità, durata e del suo trattamento, soprattutto nei casi di cronicizzazione o evolutività del sintomo, come avviene frequentemente nel malati neoplastici, sarà sicuramente utile.
Essa permetterà infatti di evitare che si ripetano, per quanto riguarda il trattamento farmacologico, inutili tentativi già proposti in precedenza, sostituendo ad un farmaco uno di pari potenza o ancor peggio di potenza inferiore. Ciascun operatore che verrà a contatto in tempi diversi con il paziente potrà così avere un quadro oggettivo ed aggiornato del divenire del malato partendo dal suo passato fino a giungere alla situazione attuale.


Approfondimenti. Riconoscere il dolore

Giova per favorire la diffusione di un linguaggio comune puntualizzare brevemente le categorie essenziali che servono a definire il paradigma della tipologia algica descrittiva, temporale e di sede, chiarendone brevemente i concetti (vedi Tab. 2) .
Tabella 2.Tipologia algica
Tipologia algica
descrittiva
Tipologia algica
temporale
Tipologia algica
di sede
Colico
Costrittivo o ischemico
Gravativo (compressivo)
Pulsante (vascolare)
Trafittivo o puntorio
Urente (simpatico)

Alternante

Incidente

Continuo


Locale

Riflesso

Dolore colico: da contrazione spastica di strutture a prevalente componente muscolare liscia. Ha andamento ciclico progressivo da un minimo ad un massimo e quindi nuovamente a valori minimi, secondo tempi, durata e intensità specifici per ciascuna eziologia.
Dolore costrittivo: si manifesta come espressione della riduzione del flusso distrettuale in conseguenza di uno spasmo della muscolatura liscia vascolare.
Dolore gravativo: determinato da fenomeni di distensione e/o compressione che producono per effetto compressivo la liberazione locale di mediatori algogeni (prevalentemente sost. P e ioni H+).
Dolore pulsante: determinato dalla vasodilatazione creata da sostanze con azione vasoattiva prodotti in corso di processi infiammatori (prevalentemente sostanze istamino-simili, chinine e radicali liberi).
Dolore trafittivo: prodotto dalla stimolazione meccanica di terminazioni sensitive libere, che liberano prevalentemente sostanza P e prostaglandine. Si accentua con i movimenti attivi o passivi (dolore incidente).
Dolore urente: può essere prodotto sia da un insulto termico diretto, che da una lesione simpatica distrettuale (gangliare) o locale (perivascolare). Esso determina per le caratteristiche di monotona persistenza della sensazione di bruciore (espressione di alterazione/lesione della conduzione del segnale a livello della fibra simpatica) una alterazione del sistema di decodificazione talamica e si accompagna ad un dolore con componente emotivo-affettiva pronunciata a genesi centrale (dolore neuropatico), che necessita di un trattamento farmacologico specifico e complesso.
Dolore continuo: persiste per più di una giornata senza recedere mai totalmente, pur potendo variare di intensità.
Dolore alternante: si manifesta solo in determinati momenti della giornata e non presenta alcun legame con attività, movimenti, ritmi biologici o situazioni psico-fisiche.
Dolore incidente: viene provocato da movimenti attivi o passivi.
Dolore locale: riferito alla sede anatomica propria di insorgenza.
Dolore riflesso: riferito al territorio metamerico di innervazione.


Valutare ("pesare") il dolore

Il processo del trattamento del dolore, e in particolare di quello neoplastico, passa attraverso tre tappe fondamentali, come abbiamo già ricordato: riconoscere, valutare e trattare il dolore. Quella centrale risulta l’anello portante di tutto l’intervento.
Siamo abituati, per consuetudine, a considerare con più attenzione il primo e il terzo punto di questo processo, mentre tendiamo ad avere poca considerazione per la fase di valutazione. Intendiamo infatti per valutazione, non una generica definizione di quello che a nostro avviso può essere il dolore provato dal malato, ma una valutazione precisa dell’intensità del sintomo che ci possa guidare nel decidere in modo strategico l’intervento terapeutico adeguato.
Se è scontato che nel trattamento di un paziente diabetico, iperteso o dislipidemico, nessuno intraprenderebbe una terapia senza avere a disposizione il valore numerico della glicemia, della pressione o del colesterolo, allo stesso modo ci si dovrebbe comportare nei confronti di un sintomo così gravoso e debilitante quale il dolore.
Definizioni come poco, abbastanza, tanto, molto, sono troppo generiche e soggettive per poter fornire uno strumento adeguato di valutazione dell’intensità del sintomo. Va ricordato inoltre come il dolore nel malato neoplastico sia qualcosa di più complesso del mero fenomeno neurologico e si componga di aspetti non solo fisici, ma psichici, sociali e spirituali che determinano quelli che gli esperti definiscono il dolore globale.
Un secondo aspetto da non trascurare è che la percezione del dolore è qualcosa di estremamente soggettivo che presenta una variazione inter e intrapersonale (varia da persona a persona e nello stesso individuo in momenti differenti della sua vita). Uno dei dati rilevati con più frequenza nelle statistiche sulla valutazione e sul trattamento del dolore è che questo è sovente misconosciuto e di conseguenza sottotrattato (il 75% dei malati che esce dall’ospedale riferisce un dolore non trattato in modo adeguato).
Uno degli errori più frequenti fatti nella rilevazione del dolore da parte dei medici è quello di voler interpretare il dolore altrui quantificandolo sulla base della propria esperienza, invece che limitarsi a fotografarne l’intensità come riferita dal paziente.
Il dolore, se si dovesse tentarne un’interpretazione di tipo matematico, è sempre il prodotto di fattori neurologici e psichici. D = P x N. Dove P risulta formato dalla somma di tutti i fattori psicologici quali: ansia, depressione, paura, solitudine, ecc., integrata da elementi sociali, economici e religiosi. Mentre N deriva dal prodotto dell’intensità del sintomo per la sua durata.
La nostra attenzione di medici si rivolge sempre in modo prevalente al solo fattore N, dimenticando come la componente P possa agire in modo altrettanto significativo sul prodotto finale, alterandone a volte a dismisura il risultato. Questo spiega perché i pazienti riferiscono spesso che il loro dolore non è trattato in modo adeguato.

Per rispondere in maniera efficace a questo problema sono state prodotte le scale di valutazione del dolore (Fig. 4 e 5). Esse sono strumenti semplici e maneggevoli di valutazione dell’intensità del sintomo che vanno usate nella gestione del malato neoplastico (vedi figure). La valutazione del dolore in questi soggetti deve essere continua, spesso giornaliera e in fase iniziale del trattamento o in situazioni critiche va fatta anche più volte nella giornata.
Il poter associare un valore numerico all’intensità del sintomo diventa l’elemento essenziale per intraprendere la terapia con il farmaco adeguato. Se gli analgesici non oppioidi sono utili nel dolore di intensità da 1 a 4 e gli oppiodi deboli in quello che va da 5 a 6, non si otterrà un risultato efficace nel trattamento di un dolore che va da 7 a 10 se non si impiegheranno oppiodi forti.
Di qui la necessità di usare quotidianamente le scale di valutazione per accertare l’intensità del dolore e scegliere di conseguenza l’analgesico più adeguato. Non sempre però vanno percorsi in sequenza i tre gradini della scala analgesica in alcuni casi diventa obbligatorio, per ottenere un risultato, partire già dall’inizio con un farmaco del 2° o 3° gradino.

Un suggerimento: usate questi strumenti continuamente nella valutazione del paziente annotando per iscritto l’andamento del dolore (diario compilato quotidianamente che riporti l’andamento dell’intensità e della durata del dolore sia durante il giorno che durante la notte). Questo permetterà di monitorare nel tempo l’efficacia della terapia somministrata, consentendo di cogliere facilmente quando sia il caso di procedere alle opportune modificazioni in presenza di ridotta efficacia (o inefficacia) del trattamento.


La scelta della terapia

L’approccio al dolore si effettua secondo tre modalità di base: modificare la sorgente dello stimolo, bloccare la trasmissione dello stimolo al sistema nervoso centrale o alterare la percezione del sintomo. L’uso integrato di queste tre tecniche di trattamento produce di solito un risultato apprezzabile.
Per definire la necessità di un approccio globale ed integrato al sintomo e alla sofferenza che ne deriva, si parla spesso nel malato di cancro di dolore totale. Questa definizione, codificata dal comitato di esperti che si è occupato di stilare per l’OMS le linee guida per il trattamento del dolore, sottolinea come, nella sua percezione-rappresentazione, intervengano con altrettanta forza, situazioni ambientali, sociali, psicoemotive, spirituali e morali, che interagiscono con la mera percezione-trasmissione neurofisiologica, amplificandola o modificandola in alcune circostanze in modo sostanziale.
La scelta della terapia più efficace in ogni singolo paziente è il frutto del confronto tra l’entità del dolore riferito, misurato con le scale di valutazione e la disponibilità di analgesici indicati per quel particolare tipo di dolore e per quel grado di intensità. Se abbiamo imparato a fare uso quotidianamente nel nostro lavoro di scale di valutazione del dolore, visive o verbali, sarà più semplice decidere per ogni situazione quale sia l’approccio più efficace e razionale. Esistono regole precise e codificate per la somministrazione dei farmaci e vanno sempre rispettate (Fig. 6).

Un dolore che in una scala di valutazione da 1 a 10 superi il valore di 5 è sicuramente un dolore che interferisce pesantemente con la qualità della vita di una persona e viene definito un dolore importante. Se analizziamo con più attenzione la progressione dell’intensità del dolore in una scala analgesica, dovremo definire come dolore leggero quello che va da 1 a 4, moderato quello che va da 5 a 6, mentre definiremo come dolore severo quello da 7 a 10.
Questa ulteriore suddivisione dei valori in tre blocchi (1-4, 5-6, 7-10 in una scala da 1 a 10 o analogamente 10-40, 50-60, e 70-100 in una scala da 1 a 100) permette di definire tre diversi livelli di soglia di attenzione, con differenti implicazioni per quanto riguarda l’intensità del sintomo da trattare.
La scala analgesica a tre gradini dell’OMS (Fig. 7) usa proprio queste tre categorie di dolore per definire il tipo e le modalità di trattamento da applicare. I pazienti che non hanno mai ricevuto trattamenti analgesici in passato e che riferiscono un dolore che va da leggero a moderato dovrebbero ricevere come prima scelta un trattamento analgesico con farmaci non oppiodi (I° gradino della scala analgesica).
Se, rivalutando il risultato della terapia, il paziente, nonostante un trattamento con farmaci di primo gradino, riferisce ancora dolore di entità lieve-moderata, si dovrà aumentare le dosi del farmaco non oppiaceo fino a raggiungere il massimo dosaggio consentito. Se anche in questo caso non si ottiene un adeguato controllo del sintomo, risulta indispensabile aggiungere un farmaco di II° gradino, vale a dire un oppiaceo debole.
Se, dopo aver fatto questa modificazione, il malato lamenta ancora un dolore di intensità lieve-moderata, diventa indispensabile aumentare progressivamente l’oppiaceo debole fino ai massimi dosaggi tollerati o consentiti. In caso questo non sia fattibile o risulti inefficace si dovrà sostituire all’oppiode debole (II° gradino della scala analgesica) un oppioide forte (III° gradino della scala analgesica), mantenendo, se del caso, il farmaco di primo gradino e associando per ogni gradino di trattamento, quando opportuno, un adiuvante (vedi oltre).
Molti esperti consigliano di non seguire in modo rigido le raccomandazioni della scala per quanto riguarda la progressiva scalata dei farmaci da usare, ma di iniziare decisamente già con un farmaco di II° gradino di fronte ad un dolore di intensità medio-alta e di III° gradino di fronte ad un dolore insopportabile.
Se il paziente, pur assumendo un oppiaceo forte, segnala la persistenza di un dolore lieve-moderato, la dose di quest’ultimo farmaco dovrebbe essere aumentata fino a raggiungere quella efficace al controllo di quel sintomo. Questo metodo ha dimostrato, dopo valutazioni "sul campo" accreditate, di essere in grado di fornire un controllo efficace del dolore nell’80-90% dei pazienti.
Nonostante il peso di queste affermazioni, si deve rilevare, con profonda amarezza e un po’ di sconforto, che pur con l’ampia diffusione data dall’OMS a queste linee guida (prodotte tra l’altro da un gruppo di esperti internazionali riuniti ad hoc su questo problema), esse vanno ancor oggi regolarmente disattese in molte nazioni, tra cui la nostra.

Credo pertanto possa essere utile analizzare un po’ più da vicino le caratteristiche e le indicazioni dei farmaci dei tre gradini. Appartengono al I° gradino il paracetamolo, l’aspirina e i Fans. Questo tipo di farmaci risultano nella pratica di valore limitato nel trattamento del dolore neoplastico, in quanto tutti hanno un livello basso di efficacia massimale.
Le dosi giornaliere di paracetamolo da somministrare non devono superare i 4 g, per evitare il rischio di danni epatici. Anche l’impiego di aspirina o di altri Fans è limitato (i dosaggi sono quelli previsti dalla farmacopea ufficiale) in questi pazienti, dall’alto rischio di patologia gastrica e di sanguinamenti dovuti alla loro azione antiaggregante piastrinica.
Sarà bene quindi, in caso di un loro impiego, monitorare periodicamente il paziente per quanto riguarda l’insorgenza di una eventuale sintomatologia a carico dell’apparato digestivo, di problemi di funzionalità epatica o renale e di possibili sanguinamenti. Si ricorda che, nella prevenzione dei danni gastrici da Fans, 200 mg x 2 al dì di misoprostol per os sono risultati più efficaci della ranitidina 150 mg x 2 al dì, sempre per la stessa via.

I farmaci oppiodi di II° gradino (in particolare i più usati in questo campo sono: codeina, diidrocodeina, tramadolo e buprenorfina) sono limitati al trattamento del dolore moderato. Essi sono gravati da quello che tecnicamente viene definito "effetto tetto" ("ceiling effect"). Questa definizione sta a significare che, aumentando il dosaggio oltre quello consigliato, si ottiene uno scarso (o nullo) miglioramento nel controllo dell’analgesia, a fronte di un aumento notevole di effetti collaterali che rende di fatto il loro impiego inaccettabile. Essi inoltre sono sovente prodotti in associazioni fisse con altri farmaci (in prevalenza analgesici non oppiodi), che risultano spesso troppo vincolanti o incongrue, limitandone di fatto ulteriormente la maneggevolezza.
Va segnalato, anche, che la codeina presenta un notevole incremento di effetti collaterali a dosi che superano 1,5 mg/kg di peso corporeo. Inoltre esistono soggetti non responsivi a questo farmaco o perché non dispongono del sistema enzimatico CYP2D6 che trasforma, demetilandola, la codeina in morfina (la codeina si ricorda è infatti metilmorfina) o perché questo è inibito competitivamente da farmaci quali la fluoxetina, la cimetidina o la chinidina.
Il tramadolo, d’altra parte, presenta effetti collaterali quali: nausea, vertigini, stipsi, sedazione, cefalea e riduce la soglia epilettica, per cui va impiegato con precauzione in pazienti che fanno uso di farmaci che abbassano questa soglia quali gli antidepressivi triciclici e gli inibitori del reuptake della serotonina, mentre non dovrebbe essere prescritto ai pazienti che presentano una storia di epilessia.
La buprenorfina, derivato sintetico di un alcaloide inattivo dell’oppio, la tebaina, è un agonista parziale per il recettore µ, un antagonista di quello k , e un agonista di quello ð ed ha una capacità analgesica pari alla morfina per dosaggi compresi nel range medio basso di quest’ultima. A bassi dosaggi la buprenorfina e la morfina presentano una sinergia nel loro effetto d’azione, mentre, per dosaggi alti, può verificarsi un effetto antagonista della buprenorfina nei confronti dell’efficacia della morfina. Non c’è però alcuna utilità nel prescriverli entrambi.

Gli oppioidi del III° gradino (morfina, metadone, fentanyl, ossicodone, idromorfone) sono comunemente prescritti per il controllo del dolore da moderato a severo. Essi vanno utilizzati uno per volta proprio per trarre profitto dalle differenze individuali di risposta al loro impiego. Le moderne teorie di trattamento analgesico ipotizzano infatti la possibilità di ruotare questi farmaci per prevenire o superare un’eventuale comparsa di inefficacia, ipotizzando che ciascuno di essi possa agire su differenti gruppi di recettori.
Esistono sul mercato formulazioni differenti che consentono di avere a disposizione un armamentario sufficientemente differenziato ed efficace, se gestito correttamente con competenza.
La morfina è il farmaco più usato tra quelli del III° gradino, le sue formulazioni si suddividono sostanzialmente in due categorie: quelle a rapido rilascio (sciroppo e compresse, queste ultime non disponibili in Italia) e quelle a rilascio controllato (discoidi, compresse). Esse hanno indicazioni ed utilità differenti, proprio perché hanno differenti durate d’azione.
Non esiste un dosaggio limite massimo all’impiego di morfina. La dose da somministrare è quella che riesce a controllare in modo efficace il sintomo, oppure quella massima tollerata senza la comparsa di effetti indesiderati che siano mal controllabili o intollerabili. È quindi possibile vedere, in pazienti differenti, dosaggi efficaci estremamente diversi che vanno da dosi di pochi milligrammi a dosaggi di grammi in alcuni casi particolari, con un range di variabilità fino a 1.000 volte tra un caso e l’altro.
In genere, però, la maggior parte dei pazienti controlla il proprio dolore con quantità giornaliere di farmaco che non superano i 200-300 mg/die. L’emivita plasmatica della morfina è in media 2-4 ore e lo "steady-state" del farmaco viene raggiunto dopo 5 emivite, vale a dire dopo circa 24 ore.
Questo è il tempo di solito necessario per rivalutare l’efficacia della terapia o l’insorgenza di eventuali effetti collaterali, sia durante un trattamento analgesico iniziale (per definire la dose giornaliera necessaria), che dopo un aggiustamento posologico con farmaco a pronto rilascio. Va ricordato inoltre che se la morfina a rapido rilascio ha mediamente una durata di azione di 4 ore, può accadere che in alcuni soggetti, per motivi metabolici, la sua durata d’azione sia più breve, spiegando così la loro anticipata richiesta di farmaco per il controllo del dolore.


Somministrazione di oppiacei per via orale

La via orale di trattamento è quella preferita perché è più semplice, più facile da applicare, meno costosa, sia in termini economici che di qualità di vita: la sua assunzione non crea infatti alcuna sofferenza al paziente. Essa ha inoltre il miglior rapporto costo-efficacia e andrebbe quindi, per tutti questi motivi, privilegiata.
Succede però molto spesso di vederla troppo presto abbandonata, senza motivo, per vie più costose o invasive, anche quando non esista alcuna indicazione in questo senso. Molte volte, più che un cambio di modalità di somministrazione, è sufficiente un adattamento posologico e/o l’associazione con farmaci di supporto per gestire il sintomo in modo adeguato.
La terapia con morfina in un paziente con dolore da moderato a grave non più controllato da un oppiaceo debole (II° gradino, in associazione o meno ad un non oppioide e ad un adiuvante), va preferibilmente iniziata con morfina a rapido rilascio. Si procede di solito con lo sciroppo, per stabilire nel giro di alcuni giorni (in media da 3-4 gg fino ad una settimana) la dose giornaliera necessaria. Ovviamente la quantità con cui iniziare il trattamento dovrà tenere presente la posologia dei farmaci assunti in precedenza (vedi Tabella 3) e l’intensità attuale del dolore riferito dal paziente.
Tabella 3.Farmaci oppioidi: principali parametri di riferimento da Oxford Text of Palliative Medicine modificato
Farmaco Dose (mg) equianalgesica a
10 mg di morfina i.m./s.c.
Rapporto
i.m.s.c./os
Emivita (h) Durata d’azione
i.m./s.c.  os
Morfina

Codeina
Ossicodone
Idromorfone
Ossimorfone
Fentanyl
Tramadolo
Buprenorfina
10

130
15
1,5
1
0,1
100
0,4
20-30
60
200
30
7,5
10
-
120
0,8
2/3:1
6:1
1,5:1
2:1
5:1
10:1
-
1,2:1
-
2-3,5

2-3
3-4
2-3
2-3
1-2
?
2-3
3-6

2-4
2-4
2-4
3-4
1-3
4-6
6-9
Note: Il rapporto dose parenterale/orale per la morfina risulta più alto negli studi su dosi singole. Questo è probabilmente spiegabile oltre a possibili differenze metodologiche con il fatto che bisogna tenere conto nel computo dell’efficacia di un suo metabolita altamente attivo che è la morfina 6-glucuronide. È possibile che questo si accumuli maggiormente nella somministrazione orale giustificando così la potenza relativa maggiore rilevata per questa via nella cronica somministrazione. Il rapporto dose parenterale/orale per l’idromorfone deriva da studi su dosi singole. Empiricamente 100 mg/h di fentanyl transdermico sono uguali a 2-4 mg/h di morfina somministrata e.v. I dati relativi all’emivita e alla durata d’azione del fentanyl sono derivati da dati su dosi singole. L’infusione continua produce una accumulazione lipidica con prolungamento del tempo di eliminazione.

Con questa formulazione, infatti, è possibile modularne le dosi seguendo l’evoluzione della sintomatologia; permettendo così di effettuare rapidi cambi di dosaggio in caso di necessità. Un’attenta e frequente rivalutazione della sintomatologia e degli eventuali effetti collaterali consente di evitare l’insorgenza di sintomi indesiderati importanti dovuti al sovradosaggio e/o all’accumulo. Si potrà inoltre ridurli velocemente fin dalla loro prima insorgenza, modificando rapidamente la posologia e/o le modalità di somministrazione.
Esistono poi effetti collaterali quali la nausea, il vomito e la stipsi che sono sempre o spesso presenti nel trattamento con oppiacei. Essi vanno perciò previsti, ricercati e gestiti con terapie ad hoc come specificato più avanti. Oltre alle quantità prescritte inizialmente e somministrate ogni quattro ore, si devono prevedere e prescrivere ulteriori aggiunte di farmaco di pari dosaggio (fino a raggiungere, se necessario, un intervallo minimo di un’ora tra una somministrazione e l’altra). Esse vanno somministrate qualora la quantità stabilita inizialmente non sia sufficiente a mantenere il paziente senza dolore per l’intero intervallo di 4 ore.
Per evitare la somministrazione della notte e consentire un maggior numero di ore di sonno si preferisce, dopo un primo assestamento posologico con 6 somministrazioni giornaliere, eliminare la dose notturna aumentando l’ultima dose serale del 100% per bassi dosaggi di farmaco e del 50% invece per dosaggi più elevati. È buona norma lasciare sul comodino una dose ulteriore di riserva che il paziente potrà assumere in caso di necessità.
Stabilito il dosaggio efficace giornaliero si calcola la dose totale di morfina somministrata nella giornata e la si divide per due ottenendo così il dosaggio di ciascuno dei due discoidi a lento rilascio da somministrare ogni 12 ore. L’ultima dose di sciroppo e il primo discoide vengono somministrati insieme. La formulazione a rilascio controllato (discoidi), grazie ad una speciale tecnica farmaceutica di preparazione, consente una durata media dell’effetto pari a 12 ore.
La tecnica di confezionamento del prodotto non consente di masticare o rompere le compresse perché in questo caso ci si troverebbe di fronte ad una modalità di assorbimento a rapido rilascio, invece che ad effetto ritardato, con effetto picco e una durata d’azione del tutto imprevedibile.
Va segnalato che è stata di recente introdotta, anche sul mercato italiano, una confezione di morfina retard in microgranuli che consente l’apertura della capsula e la somministrazione della stessa in alimenti liquidi quali brodo o minestra.
L’intervallo tra una somministrazione e l’altra deve essere rigorosamente di dodici ore; intervalli più brevi, al di fuori di pochi casi eccezionali, non hanno alcun razionale. In caso si verifichi la necessità di aumentare il dosaggio si dovrà infatti aumentare la posologia delle singole somministrazioni del farmaco ogni 12 ore (e non ridurre gli intervalli di somministrazione!!).
Lo sciroppo a pronto rilascio consente inoltre di fronteggiare in breve tempo repentine e capricciose modificazioni della sintomatologia dolorosa, non controllate a sufficienza dalla terapia di base con morfina retard somministrata ad intervalli regolari. Esso deve quindi essere sempre disponibile in aggiunta alla terapia di fondo somministrata ogni dodici ore per far fronte ad episodi di dolore incidente.
In alternativa alla via orale, quando il paziente presenta nausea e/o vomito, o non è più in grado di deglutire, è possibile somministrare il farmaco per via rettale, transcutanea o sottocutanea.


Dosi per iniziare un trattamento con morfina per os

Dovendo iniziare un trattamento con morfina si comincerà a somministrare 5 mg di sciroppo ogni 4 ore se il paziente non assumeva oppiacei in precedenza (paziente "naive") o in caso di pazienti anziani e/o defedati, per ridurre l’iniziale sonnolenza, l’eventuale confusione mentale e le difficoltà di equilibrio.
Per coloro che già assumevano codeina, la dose iniziale sarà di 10 mg, sempre ogni 4 ore (oppure 30 mg di morfina retard ogni 12 ore). Infine essa sarà di 15-20 mg con lo stesso intervallo di tempo se il paziente assumeva oppiodi per via generale (vedi Figura 8). Per quanto riguarda gli aggiustamenti posologici in caso di persistenza del dolore, gli esperti propongono di salire con il dosaggio ogni 24 ore aggiungendo ogni volta all’incirca il 50% della dose del giorno precedente (es: 5 - (7,5) - 10 - 15 - 20 - 30 - 40 - 50 - 60).
È buona norma comunque, nel passare da un farmaco all’altro, tenere conto delle tabelle che riportano le dosi equianalgesiche (vedi Tabella 3). Esse, pur rappresentando solo un criterio orientativo la cui equivalenza può variare da soggetto a soggetto, permettono di orientarsi nel decidere il dosaggio più razionale, evitando così di incorrere in grossolani errori di sovra o sottodosaggio.

Somministrazione di oppiacei per via rettale

La morfina a rilascio rapido è efficace anche per via rettale. La dose da somministrare per questa via è pari a quella somministrata in precedenza per via orale. Con questa modalità di somministrazione la morfina presenta la stessa biodisponibilità e la stessa durata d’azione della morfina a rapido rilascio assunta per os.
Quanto detto sembra derivare più da riferimenti aneddotici che da sperimentazioni vere e proprie, perché da un punto di vista farmacocinetico ci si aspetterebbe un assorbimento più elevato per via rettale in quanto questa via consente un passaggio diretto del farmaco in circolo come avviene per la via sublinguale.
Si può somministrare il farmaco a pronto rilascio per via rettale sia facendo uso di supposte che di soluzioni utilizzando microclismi (vedi articolo sulle preparazioni galeniche pubblicato nel numero precedente). La via rettale può anche essere utile in fase pre e post operatoria se il paziente deve rimanere a digiuno.
Non è da usarsi in casi di lesioni dell’ano o del retto perché può risultare dolorosa, né in presenza di emorroidi sanguinanti o di diarrea per le notevoli alterazioni nella sua cinetica di assorbimento o negli anziani per difficoltà di assunzione. Le compresse a lento rilascio possono essere somministrate anche per questa via, ma studi effettuati a tale proposito indicano una più lenta percentuale di assorbimento rispetto alla somministrazione per bocca.
Va segnalato che, come per gli altri farmaci somministrati per questa via, la quantità di prodotto assorbita per via rettale non è sempre stabile né prevedibile con certezza (alcuni studi parlano di un assorbimento che varia tra il 12% e il 61%, altri segnalano la stessa efficacia per lo stesso dosaggio tra os o via rettale) in quanto, oltre a differenti cinetiche di assorbimento, è possibile perderne una parte per incontinenza, soprattutto per gli anziani.
È una via scarsamente usata in Italia, anche se è possibile confezionare senza troppe difficoltà supposte di morfina aggiungendo il farmaco in quantità dai 10 ai 30 mg al burro cacao o inserire tramite siringa la polvere disciolta in soluzione o le fiale in capsule di gelatina dura idrosolubile o più semplicemente facendo uso di microclismi preparati ad hoc in modo estemporaneo.
Nel nostro paese ci si limita molto spesso all’introduzione per questa via di una soluzione preparata estemporaneamente ed iniettata facendo uso di siringhe (come per il diazepam), di piccoli cateteri o di perettine per clisteri. Le preparazioni in microclismi, indicate nel numero precedente di questa pubblicazione, possono essere facilmente approntabili e sicuramente meno traumatiche e fastidiose, seppur di pari efficacia, di una somministrazione tramite siringa. Per questa stessa via e con le stesse metodiche sopra indicate è possibile somministrare con efficacia sia l’ossicodone che l’idromorfone.

Somministrazione di oppiacei per via transcutanea

La via transcutanea evita l’assorbimento tramite il tratto gastrointestinale. Il solo oppiaceo forte attualmente disponibile con questa tecnica è il fentanyl, prodotto in cerotti transdermici dosati in mcg/h di dismissione (rispettivamente da 25, 50, 75 e 100 µg/h). La dose oraria massima racccomandata è pari a 300 mcg/h, consentendo così un’ampia gamma di scelta nei dosaggi da somministrare. Ciascun cerotto fornisce per 72 ore una dismissione continua del farmaco al dosaggio prefissato.
I livelli plasmatici salgono progressivamente nelle prime 12-18 ore dopo la sua applicazione e con questa via di somministrazione il farmaco ha una emivita di 21 ore circa. A differenza della formulazione per endovena, con questo sistema il farmaco è poco maneggevole per rapide modificazioni di dosaggio. Va quindi impiegato solo in pazienti che presentano un dolore stabile con pochi episodi di dolore incidente. In soggetti che non hanno mai fatto uso in precedenza di morfina o di altri oppiacei forti deve essere inizialmente somministrato al dosaggio più basso (vedi Tabelle 4-5).
Tabella 4.Tabella di conversione da morfina solfato orale a fentanyl transdermico da R. Twycross "Symptom management in advanced cancer"
Morfina orale
(ogni 4 ore)
Morfina orale
(mg/die)
Fentanyl transdermico
(velocità di dismissione in mcg/h)
5-20
25-35
40-50
55-65
70-80
  85-95 
30-120
150-210
240-300
330-390
420-480
510-570
25
50
75
100
125
150
Tabella 5.Calcolo della dose di riserva di morfina da somministrare ad un paziente in terapia con fentanyl da R. Twycross "Symptom management in advanced cancer"
Dividere il tasso di dismissione del cerotto di fentanyl (mcg/h), che è indicato nelle differenti confezioni del farmaco, per 3 e somministrare la quantità così calcolata come morfina s.c. (mg).

Somministrazione di oppiacei sottocute, e.v. o i.m.

Sia la somministrazione sottocutanea che quella endovenosa (vedi più avanti) sono una efficace alternativa alle vie precedenti, in caso di necessità. Trovano impiego, oltre che nei pazienti con nausea e vomito, disfagia e difficoltà di deglutizione, anche in quelli con confusione o alterazione dello stato mentale, per i quali può essere controindicato, per il pericolo di eventuali aspirazioni del farmaco nelle vie respiratorie, continuare con la via orale.
Altre indicazioni sono i pazienti che necessitano di dosaggi estremamente elevati di farmaco (numerosi discoidi o capsule), quelli che necessitano di rapidi incrementi di posologia e coloro che presentano effetti collaterali importanti e mal tollerati già in fase iniziale di somministrazione con lo sciroppo al bisogno. Per questa via infatti si possono usare, con parità di efficacia, dosaggi di farmaco inferiori (vedi Tabella 3).
La via sottocutanea (vedi articolo a tale riguardo in questa pubblicazione) è una semplice e pratica alternativa facilmente gestibile, sia in regime ospedaliero che soprattutto a domicilio, anche dal malato stesso o dai suoi familiari, quando non sia già disponibile per altre ragioni un accesso venoso. È evidente che l’infusione continua di farmaci è sicuramente più efficace e preferibile a somministrazioni ripetute e/o al bisogno sia intramuscolari che per sottocute (vedi più avanti).
Esistono infatti dispositivi infusionali semplici: pompe di tipo meccanico a molla (collocate in una piccola borsa e fissate alla vita del malato sotto gli abiti come una banale cintura) che permettono, raccordando una siringa ad un butterfly 25 Gy posizionato in sottocute, di infondere il farmaco in modo continuo attraverso il movimento meccanico dello stantuffo. Questi pratici dispositivi, con possibilità di regolare manualmente la velocità di infusione, sono abbastanza economici, facilmente manovrabili, richiedono scarsa manutenzione e sono sufficientemente robusti da poter essere usati per anni per il trattamento di molti pazienti.
Esistono inoltre dispositivi assai sofisticati, estremamente più costosi, che permettono, per situazioni particolari, la gestione computerizzata programmata e differenziata della somministrazione, oppure dispositivi monouso con velocità di infusione oraria fissa, già predefinita per ciascun tipo di infusore, non modificabile. La sede di infusione andrebbe ruotata almeno una volta ogni 2-3 giorni per evitare l’insorgenza di fenomeni infiammatori. In caso di difficoltà a reperire questi presidi è possibile somministrare sottocute il farmaco ad intervalli regolari e ad un dosaggio che sia 1/2-1/3 di quello assunto per bocca ogni 4 ore (o 1/6-1/9 della dose retard somministrata ogni 12 ore).
Una singola dose di morfina nel dolore postoperatorio presenta un rapporto di potenza os/i.m. pari a 1:6. Nella somministrazione cronica del farmaco esso si assesta ad un rapporto di 1:2, 1:3. La discrepanza di efficacia tra potenza relativa di una dose singola e un trattamento cronico può essere spiegata, oltre che con le differenti metodologie impiegate nella valutazione, con differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche.
È possibile che l’accumulo del metabolita attivo morfina 6 glucuronide (il 3 glucuronide è invece inattivo) in rapporto alla quantità di morfina somministrata sia differente tra somministrazione parenterale e orale, in particolare più alto per quest’ultima, spiegando così la potenza superiore della via orale nelle somministrazioni croniche (vedi nota Tabella 3). Il dato comunque più importante, utile per la pratica clinica, è che esiste una differente potenza relativa nell’impiego di vie di somministrazione diverse per lo stesso farmaco.
Essa va tenuta ben presente quando si cambia la via di somministrazione per non incorrere involontariamente in una ripresa del dolore per un sottodosaggio del farmaco o nella comparsa di effetti tossici da sovradosaggio. La pratica corrente, nel passare dalla morfina orale a quella sottocutanea, è di dividere la dose somministrata per os per 2 o 3 (l’Expert Working Group of the European Association for Palliative Care propone più specificatamente rispettivamente il rapporto di 1:1 tra os e via rettale; 1:2 tra os e via sottocutanea e 1:3 tra os e via endovenosa).
La somministrazione endovenosa fornisce un’analgesia più rapida, ma la sua durata dopo somministrazioni in bolo è sicuramente inferiore a quella per altre vie, come pure di somministrazioni lente prolungate sia e.v. che sottocute. Per i pazienti già portatori di catetere centrale a permanenza la via endovenosa può essere una valida alternativa in alcune situazioni particolari.
La via intramuscolare infine andrebbe evitata nel trattamento cronico in quanto dolorosa, scomoda e perché l’assorbimento non è attendibile. La documentazione del fallimento del controllo del dolore con farmaci analgesici e adiuvanti a dosaggio massimale per le vie più semplici fin qui riferite deve precedere sempre la scelta di una via più invasiva: intraspinale o intraventricolare. La via intraspinale e a maggior ragione quella intraventricolare vanno riservate quindi a pochi casi selezionati in centri specialistici.

Gli oppioidi da non usare

Esistono infine degli oppiodi che non sono raccomandati per l’impiego nel dolore da cancro. Essi sono: la meperidina, la pentazocina, il butorfanolo, la dezocina e la nalbufina. La meperidina non dovrebbe essere usata sia per la sua breve emivita sia per il fatto che il suo metabolita normeperidina risulta tossico.
Gli agonisti/antagonisti quali: pentazocina, butorfanolo, dezocina, nalbufina hanno una bassa efficacia massimale e presentano il non trascurabile rischio di scatenare una sindrome di astinenza in pazienti che stanno già facendo uso di oppiacei agonisti puri, per cui anch’essi vanno evitati.
Gli agonisti parziali, come la buprenorfina, sono di utilità limitata a causa della bassa efficacia massimale con rilevanti effetti tossici sopra la dose ottimale consigliata, senza che si abbia per questo un guadagno di analgesia. Per la buprenorfina mentre alcuni non ne raccomandano l’uso sia per l’effetto tetto oltre determinati dosaggi che per la possibile finestra di scopertura terapeutica quando da questa si debba passare a morfina, altri (Zenz comunicazione personale) la ritengono paragonabile un oppioide forte (III° gradino scala analgesica) con minori problemi di effetti collaterali rispetto alla morfina, seppur limitata nel suo uso in qualche modo dall’effetto tetto, ma sicuramente più potente di tutti gli oppiacei del II° gradino della scala.

Effetti collaterali più frequenti nel trattamento con oppiacei

Poiché esiste una grande variazione individuale nello sviluppo di effetti collaterali durante la somministrazione di oppiodi è necessario che il medico monitorizzi attentamente il paziente, ricercandoli metodicamente, e li tratti immediatamente alla comparsa. Inoltre per alcuni, che sono pressoché inevitabili, è buona regola eseguire già fin dall’inizio una adeguata profilassi. I più frequenti sintomi collaterali che si presentano in un trattamento con oppiacei sono: la stipsi, la sedazione, la nausea e il vomito e infine la depressione respiratoria.

La stipsi
La stipsi è il problema più comune che si presenta con l’uso di questi farmaci. Esso non va incontro nel prosieguo del trattamento, al fenomeno della tolleranza, per cui risulta sempre presente durante tutto il trattamento. È bene iniziare a somministrare sin dal primo giorno di impiego degli oppiacei un trattamento con fibre e lassativi di potenza media (es. magnesia) in caso di stipsi non severa.
In caso di stipsi severa usare lassativi più potenti di tipo stimolante (es. senna o bisacodile) a cui si possono aggiungere lassativi di tipo osmotico (es. lattulosio o sorbitolo). Essi vanno assunti preferibilmente alla sera, con l’aggiunta in caso di necessità di una supposta di glicerina.
I lassativi ammorbidenti o emollienti (es. docusato) sono di utilità limitata per il fatto che il colon riassorbe acqua dalle feci in formazione. Non vanno quindi usati da soli, ma possono risultare utili se associati ai lassativi stimolanti in pazienti allettati.

Sedazione
La sedazione transitoria si presenta frequentemente quando si aumentano i dosaggi, ma nei confronti di questo sintomo fortunatamente si sviluppa invece rapidamente tolleranza. In caso di una sua persistenza il miglior trattamento è quello di ridurre, quando si fa uso di morfina pronto rilascio, la dose di farmaco in ciascuna somministrazione, aumentandone però la frequenza. In questo modo si manterranno stabili i dosaggi ematici del farmaco e quindi la sua efficacia, riducendo però la sedazione che deriva dal suo impiego.

Nausea e vomito
La nausea e il vomito sono fenomeni frequenti dopo le prime somministrazioni di oppiodi e sono dovuti a differenti meccanismi d’azione: stimolazione dell’area postrema nel pavimento del IV ventricolo, stimolazione dell’apparato vestibolare, rallentato svuotamento gastrico. Esiste inoltre il vomito dovuto ad aumento della pressione endocranica.
I farmaci impiegati per il suo trattamento appartengono a classi farmacologiche differenti e sfruttano meccanismi d’azione diversi centrali (neurolettici) o periferici (metoclopramide). I dosaggi consigliati sono per l’aloperidolo 1-2 mg s.c. (o 1-2 mg ogni 12 ore per os), per la clorpromazina 25 mg s.c. (o proclorperazina 5-10 mg ogni 4 ore per os) e infine per la metoclopramide 10 mg s.c. (o 10 mg ogni 4 ore per os).

Depressione respiratoria
La depressione respiratoria è un fenomeno raro nei pazienti neoplastici in trattamento cronico con oppioidi. Sono due i meccanismi che giustificano questa affermazione: il fatto che il dolore risulta il miglior antagonista fisiologico della depressione respiratoria e l’evidenza che nel trattamento cronico con oppiacei si sviluppa, anche per questo sintomo, il fenomeno della tolleranza.
L’unica situazione in cui è possibile vedere una depressione respiratoria in questi malati è quando il dolore viene interrotto bruscamente da un trattamento causale o sintomatico senza che si sia contemporaneamente ridotta la quantità di oppiode somministrato. In questo caso la possibilità di una sua manifestazione è dovuta all’improvvisa caduta dello stimolo antagonista rappresentato proprio dal dolore.
Si ricorda che esiste in commercio (ed è obbligatorio per i medici averlo in borsa!) un antagonista degli oppiodi: il naloxone. Va sottolineato però che esso va somministrato con cautela in questi pazienti, in quanto essi sviluppano, con il trattamento cronico, una tolleranza agli oppiacei e presentano una grande sensibilità all’azione di farmaci antagonisti.

Tabella 6.Trattamento dell’overdose di oppiacei con naloxone (American Pain Society)
• Se la frequenza del respiro è = di 8/min e il paziente non risulta cianotico controllate frequentemente il paziente usando la condotta di aspettare e osservare
• Se vi trovate di fronte ad una depressione respiratoria pericolosa per la vita diluite 1 fiala di naloxone (0,4 mg) in 10 cc di fisiologica per preparazioni iniettabili
• Somministrate 0,5 ml di soluzione (0,02 mg per via endovenosa ogni 2 minuti) fino a raggiungere uno stato del respiro soddisfacente
• Ricordate che sono spesso necessari ulteriori boli di naloxone ogni 30-60 minuti perché il naloxone ha un’azione breve sulla morfina e su altri oppiacei.

In caso di depressione respiratoria sintomatica essa andrà trattata quindi con estrema cautela usando soluzioni diluite di naloxone (0,4 mg = 1 fl diluita in 10 cc di soluzione fisiologica), somministrando ogni minuto boli da 0,5 ml (0,02 mg di farmaco, vedi Tabella 6). Il dosaggio va ovviamente rivalutato sulla base della frequenza respiratoria, ricordando che una ripresa completa dello stato di vigilanza si associa in molti casi ad una sindrome da astinenza con ripresa del dolore.
Pertanto si dovranno somministrare dosi progressivamente crescenti di farmaco con l’obiettivo di migliorare la funzione respiratoria senza però arrivare, se possibile, a bloccare l’effetto analgesico. In alternativa ai boli si può diluire due fiale di farmaco (2 fl. = 0,8 mg) in una glucosata al 5% da 250 cc e infonderla in modo continuo variando la velocità di infusione a seconda della frequenza respiratoria.

Altri sintomi
Due brevi riflessioni possono risultare ancora utili per quanto riguarda la comparsa di altri due sintomi indesiderati da trattamento con oppiacei: la confusione e la sudorazione.
La confusione si verifica più frequentemente tra i pazienti anziani, che vanno informati di questo. Con essi sarà necessario iniziare sempre con dosaggi più bassi o prescrivere inizialmente il farmaco a pronto rilascio ogni 6-8 ore.
La sudorazione è un sintomo sperimentato da alcuni pazienti, può essere profusa e diventare problematica durante la notte. Essa si presenta più spesso in pazienti con metastasi epatiche. Il dormire poco vestiti in una stanza abbastanza fresca può essere molte volte l’unico rimedio, ma molti pazienti accettano volentieri questo fastidio in cambio di un buon controllo del dolore, soprattutto se è stato spiegato loro che questo sintomo non è preoccupante o pericoloso per la loro salute.


Pregiudizi all’uso della morfina

Molta disinformazione circa l’efficacia e gli effetti dei farmaci oppiacei, insieme ad erronee convinzioni radicate nel profondo dell’opinione pubblica, frutto più che altro di fantasie popolari piuttosto che di dati di letteratura documentati, hanno portato al diffondersi di disinformazione e di pregiudizi ingiustificati nei confronti di questi farmaci e del loro impiego.
In questo quadro inoltre si inserisce il sensazionalismo disinformativo e diseducativo dei "cosiddetti mezzi di informazione" che confondono con molta facilità fenomeni quali la dipendenza fisica (prova di efficacia del farmaco) con la dipendenza psicologica (desiderio di assunzione per puro piacere) che è alla base del fenomeno della dipendenza (atteggiamento compulsivo di ricerca del farmaco per fini di piacere/abuso). La classe medica in larga parte purtroppo, ancora oggi, non è esente dalla suggestione di queste pseudo-notizie, rinunciando in questo caso ad un giudizio razionale sull’efficacia medica di questi farmaci per allinearsi, o meglio dire accodarsi, in modo irrazionale, al comune diffuso pregiudizio che li circonda.

Il primo mito da sfatare è che l’assunzione di morfina in cronico comporterebbe lo sviluppo di una dipendenza psicologica.
Nulla è più falso nel caso dei malati neoplastici. Essi non assumono infatti il farmaco per piacere (leggasi dipendenza psicologica. Essa in una ricerca su oltre 12.000 pazienti neoplastici trattati si è sviluppata in soli 4 casi!!!), ma per riuscire a controllare un dolore terebrante. L’assunzione di questi farmaci a dosi medio-alte per lunghi periodi sviluppa sicuramente la necessità di non interromperne bruscamente l’assunzione, pena l’insorgenza di effetti indesiderati (dipendenza fisica).
Questo fenomeno però sta solo a dimostrare l’attività e l’efficacia del farmaco. Nessuno di noi si stupirebbe che sospendendo l’insulina ad un soggetto diabetico insulino-dipendente lo stesso possa andare incontro ad un coma diabetico o che sospendendo un antiipertensivo ad un iperteso grave egli possa andare incontro ad una crisi ipertensiva (sic!!).
In entrambi i casi i pazienti risultano dipendenti dal farmaco né più e né meno di come avviene per gli effetti farmacologici degli stupefacenti. È ridicolo e quanto mai tendenzioso (in quanto privo di un qualsiasi supporto scientifico) sostenere che gli ammalati di cancro in trattamento con oppiacei per il dolore abbiano gli stessi problemi dei tossicodipendenti che fanno abuso di queste sostanze a scopo di piacere (dipendenza psicologica).

Il secondo riguarda la paura della comparsa di una rapida e incontrollata assuefazione.
Il fatto inoltre che in alcuni ammalati si verifichi un aumento della richiesta di questi farmaci per controllare il dolore è facilmente spiegabile con due fenomeni che hanno un presupposto logico e razionale.
Il primo è la comparsa di tolleranza, fenomeno tipico degli oppiacei che si traduce nella necessità, dopo qualche tempo, di trattamento di una dose maggiore di farmaco per controllare lo stesso tipo di dolore.
Il secondo, è che purtroppo, il progredire della malattia, in questi pazienti a prognosi infausta, porta inevitabilmente con sé molto spesso un aumento della sintomatologia dolorosa che richiede ovviamente una dose maggiore di farmaco per il controllo del sintomo. Sarebbe quasi come se ci si stupisse di dover aumentare le dosi di farmaco in un iperteso di fronte ad una crisi ipertensiva (sic!!).

Il terzo è rappresentato dalla convinzione che l’assunzione di questi farmaci comporti la comparsa di fenomeni disforici o di una inadeguata euforia pressoché costante.
Nessuno degli oppiacei impiegati a dosi adeguate nel trattamento del dolore sviluppa euforia. Il miglioramento dell’umore che si può verificare è diretta conseguenza, nei casi in cui questo avvenga, del raggiunto controllo della sintomatologia dolorosa che influisce pesantemente e quotidianamente sul tono dell’umore e sulla qualità di vita dei malati. Non è raro invece vedere comparire in questi malati trattati cronicamente dei tratti di depressione, che si integrano e si spiegano con l’evoluzione della patologia di base.

Il quarto mito, di difficile eradicazione, presente purtroppo più tra i medici che tra i pazienti, è la convinzione che l’assunzione degli oppiacei comprometta la qualità di vita.
Ci si chiede, senza purtroppo trovare alcuna spiegazione razionale, come possa continuare a persistere un simile pregiudizio quando sono sotto gli occhi di tutti i casi di malati (ancora pochi purtroppo) che riescono a mantenere fino in prossimità della morte una dignità ed una autonomia sufficienti con l’impiego di queste sostanze perché trattati adeguatamente.
Allo stesso modo sono purtroppo altrettanto visibili le molte migliaia di pazienti (davvero troppi!!!) che passano gli ultimi mesi della propria vita con dolori atroci che potrebbero essere sedati. Questo pregiudizio, che comporta la negazione da parte di molti medici di una terapia di dimostrata efficacia, conferma purtroppo in molti malati e in chi li circonda l’errata convinzione dell’inutilità della terapia analgesica, ponendo di fatto problemi morali e sostanziali che andranno affrontati a fondo in tempi brevi. Questo atteggiamento di negazione di una terapia efficace solleva, secondo molti bioetici al di là del problema umano, che non è sicuramente trascurabile, la possibilità, tutt’altro che remota, di un’accusa di malpractice (vedi articolo "Problemi etici in terapia palliativa" nel numero precedente di questa pubblicazione).

Infine da ultimo, ma non per questo meno importante ("last but not least"), viene la paura che l’uso di questo tipo di farmaci provochi depressione respiratoria.
Come già spiegato in precedenza, la comparsa di una depressione respiratoria significativa è quanto mai rara in questi pazienti se sono stati trattati con dosi adeguate di farmaco, in quanto è proprio il dolore stesso il miglior antidoto per impedire la comparsa di tale sintomo.
Se quindi, seguendo le linee guida approntate ad hoc per il trattamento del dolore, si eviterà di somministrare dosi incongruamente troppo alte di farmaco e se si avrà l’accortezza di scalare la dose prescritta in presenza di trattamenti che si prevede ridurranno notevolmente o annulleranno l’intensità del sintomo, non si dovrà avere paura di imbattersi in questo fenomeno. I pochi casi raccontati fanno parte più di una letteratura aneddottica che scientifica e si riferiscono ad usi incongrui del farmaco più che alla comparsa di un effetto collaterale imprevedibile.


Riflessioni pratiche riassuntive finali

La terapia analgesica deve essere somministrata secondo un preciso schema, ad orari e ad intervalli fissi. La somministrazione non deve mai essere fatta al bisogno, ma programmata. L’unica situazione in cui si può usare un trattamento al bisogno è quella in cui si pensa che il dolore possa durare non più di 24 ore.
Si deve somministrare la dose minima efficace a prevenire l’insorgenza del dolore e non aspettare che esso si manifesti per trattarlo. Si sa infatti che il dolore, trattato con dosi profilattiche adeguate di farmaco atte a prevenirlo, richiederà sempre quantità minori di sostanza di un trattamento "al bisogno". Invece, la paura di riprovare dolore, innescherà come conseguenza manifestazioni di ansia e di paura che abbasseranno notevolmente la soglia percettiva, richiedendo di conseguenza dosaggi maggiori, anche a parità di sintomatologia, per il forte peso che esercita lo stato emotivo del paziente sulla sua percezione del sintomo.
Devono essere previste dosi aggiuntive di farmaco per controllare il dolore incidente. Esse devono essere indicativamente pari alla dose di farmaco a pronto rilascio che si somministra ogni quattro ore. Se il paziente segnala troppo frequentemente un dolore incidente o deve assumere troppe dosi di "riserva", in aggiunta alle somministrazioni programmate ad orari fissi, si dovrà aumentare la dose totale giornaliera di farmaco.
Nel caso invece la necessità di dosi aggiuntive sia rara, sarà bene continuare con il dosaggio base di farmaco programmato, prescrivendo dosi integrative da lasciare sul comodino in caso di necessità. Di fronte a dolore severo, mal controllato dalla dose di farmaco che si sta somministrando, è bene incrementare il dosaggio totale giornaliero di morfina di un 50-100% ogni 24 ore, mentre l’incremento sarà solo pari al 25-50% della dose delle 24 ore se il dolore che il paziente riferisce ancora di avere è di intensità moderata.
In caso si preveda una diminuzione importante o una risoluzione del dolore in conseguenza di un trattamento causale o palliativo della sua sorgente (es.: intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia, flash antalgici su metastasi ossee) è bene prevedere in anticipo questa evenienza, cominciando a ridurre progressivamente i dosaggi del farmaco somministrato. Si eviterà così la comparsa di effetti collaterali spiacevoli. Il dolore infatti, fino a quando è presente, risulta essere il miglior antidoto alla depressione respiratoria da oppiacei. Per evitare la comparsa di una sindrome da astinenza si riduce del 50% la dose somministrata giornalmente nei primi due giorni, poi del 25% la dose quotidiana ogni due giorni, finché la dose totale (in equivalenti di morfina) è pari a 30 mg al giorno. A questo punto il farmaco può essere sospeso dopo due giorni dalla dose di 30 mg die (American Pain Society). La clonidina per via transdermica alla dose di 0,1-0,2 mg/die può ridurre l’ansia, la tachicardia e altri sintomi autonomici da sospensione di oppiacei.
L’effetto analgesico per gli oppiacei a rapido rilascio somministrati per os (es. morfina, ossicodone, idromorfone) comparirà in media entro mezz’ora dalla somministrazione e durerà all’incirca per 4 ore. In caso il paziente riferisca ancora dolore dopo che è trascorso l’intervallo di tempo necessario perché il farmaco possa espletare la sua azione, la dose dovrà essere progressivamente incrementata fino al dosaggio in grado di controllare il dolore ogni quattro ore senza provocare effetti tossici.
Le compresse a lento rilascio (morfina, l’ossicodone non è disponibile in Italia per ora in questa formulazione) cominciano a controllare il dolore dopo un’ora, presentano un picco tra 2-3 ore ed il loro effetto dura mediamente 12 ore. In caso l’efficacia dell’analgesia sia di durata inferiore andrà aumentato il loro dosaggio (non ridotto l’intervallo tra le dosi!).
Il fentanyl transdermico inizia la sua azione circa dopo 12 ore, con un picco tra 24-48 ore e la sua azione dura mediamente fino alle 72 ore. Nella somministrazione sottocute (morfina o idromorfone) l’effetto analgesico si verifica in 10-15 minuti e dura da 3 a 4 ore. Per via endovenosa, infine, l’azione inizia dopo 5 minuti e dura in media 1-2 ore.
Tabella 7.Principi generali di trattamento del dolore
• L’esperienza dolore è qualcosa di unico e di irripetibile in ogni individuo. Essa risulta differente tra paziente e paziente, e anche nello stesso soggetto in differenti momenti della sua malattia. Il non tenerne conto rischia di far fallire qualsiasi piano di trattamento nonostante i buoni propositi che lo possono accompagnare.
• In questo tipo di malati il dolore non è soltanto un’esperienza fisica, ma si compenetra in modo indissolubile con i vissuti di natura psichica, morale, sociale e spirituale del paziente che interagiscono ampliandone talvolta in modo esponenziale la percezione. Il non tenerne conto rischia di rendere il trattamento inefficace.
• Valutate attentamente il dolore riferito dal paziente e registrate l’intensità che egli vi riferisce, senza cercare di codificare a priori l’intensità del dolore sulla base del tipo di sintomo riferito, cercando di oggettivarla con semplici strumenti, (es. scale analgesiche visive).
• Tenete conto in gran conto quanto riferito dal paziente in merito all’intensità del dolore, evitando di applicare al trattamento schemi preconfezionati, che non tengano conto della situazione attuale.
• Evitate di proiettare esperienze personali, preconcetti e pregiudizi nella valutazione del sintomo.
• Rivalutate continuamente il dolore e modificate di conseguenza il trattamento. La gestione giornaliera del sintomo consente di somministrare il dosaggio più efficace e di prevenire o gestire all’insorgenza i possibili effetti collaterali.
• In caso di dolore violento resistente ai trattamenti o mal controllato aumentate la frequenza delle valutazioni del sintomo (anche più volte al giorno).
• Usate farmaci o tecniche di trattamento che risultino proporzionate alla severità e al tipo specifico di dolore che avete diagnosticato e che volete trattare.
• Fate riferimento sempre come linea guida nella scelta del farmaco da somministrare alla scala analgesica OMS che prevede 3 gradini progressivi per il trattamento del dolore.
• Somministrate i farmaci in quantità sufficiente e a intervalli adeguati tra le dosi, tenendo conto delle differenti emivite e della differente potenza di ciascuno.
• Ricordate che esiste per i farmaci di 1° e 2° gradino della scala analgesica "l’effetto tetto" ("ceiling effect"), per cui in caso di mancata risposta al dosaggio massimale consigliato di ciascun farmaco non aumentate la dose ma passate al gradino successivo o integrate il trattamento con i coanalgesici.
• Non usate contemporaneamente farmaci dello stesso gradino, non ha nessun razionale.
• Somministrate i farmaci per bocca tutte le volte che questo è possibile. La morfina a rilascio controllato è un farmaco di prima scelta nel trattamento del dolore severo nei pazienti con cancro o HIV/AIDS.

 

Tabella 8.Principi generali di trattamento del dolore
• La terapia orale è efficace in circa l’80% dei pazienti con dolore severo.
• Fate somministrare i farmaci seguendo uno schema fisso e a intervalli regolari, prevenendo l’insorgenza di una recidiva della sintomatologia attraverso il mantenimento di un dosaggio ematico di farmaco sufficiente a controllarlo. Svegliate il paziente per somministrare la dose notturna del farmaco se prevista utilizzate sempre quando possibile prepazioni long-acting per evitare risvegli inutili.
• L’impiego di una terapia al bisogno oltre a risultare spesso inefficace determina da parte del malato richieste di dosi maggiori di farmaco per la paura che scatena il ripetersi dell’esperienza dolore, favorendo la possibilità di ottenere un trattamento inadeguato.
• Lasciate sempre delle istruzioni, preferibilmente scritte in modo semplice e chiare per trattare eventuali esacerbazioni.
• Chiedete se si sono presentati effetti collaterali e trattatateli alla loro insorgenza. Alcuni si autolimitano con il proseguimento dell’assunzione del farmaco o con adeguamenti posologici (nausea, vomito, sedazione). Altri come la stipsi persistono per tutto il trattamento e vanno trattati preventivamente (lassativi da subito).
• La paura della depressione del respiro è pressoché inesistente in presenza di dolore, facendo uso di dosi adeguate, in quanto il dolore stesso è il migliore antidoto alla depressione respiratoria.
• Usate sempre se possibile farmaci per i quali esiste l’antidoto e tenetelo a portata di mano.
• Valutate sempre se esiste tolleranza che si manifesta con l’abbreviazione dell’intervallo di efficacia o la riduzione dell’effetto analgesico.
• Non scambiate la dipendenza fisica (tipica del trattamento con oppiacei) con la dipendenza psicologica del fenomeno di abuso.
• Non pensate che i farmaci siano l’unico mezzo per controllare il dolore.
• Valutate sempre gli aspetti, psicologici, sociali, economici, morali e spirituali associati al sintomo.
• Insegnate alla famiglia gli elementi essenziali del trattamento del dolore.
• Ricordate di rapportarvi sempre ad ogni malato, come ad un individuo unico, che porta richieste, forza, debolezza uniche, ogni volta, nell’esperienza della malattia terminale.
• Tenete un diario scritto dell’intensità e del tipo dei sintomi manifestati e del trattamento somministrato. Il diario deve essere semplice nella forma, scritto in modo leggibile e contenere le indicazioni necessarie al trattamento di eventuali riacerbazioni che si possono presentare nonostante la terapia di base e degli effetti collaterali che si prevede possano manifestarsi. Esso deve essere tenuto a portata di mano nella camera del paziente a disposizione di tutti coloro che si occupano del paziente (familiari ed operatori).

Gli adiuvanti

L’impiego della terapia adiuvante nel paziente con cancro ha tre utilità principali:
• incrementare l’efficacia della terapia analgesica di base con oppiodi;
• permettere di ottimizzarne i risultati, consentendo di aumentarne progressivamente le dosi con il controllo e la gestione dei loro effetti collaterali;
• trattare specifici tipi di dolore che non rispondono alla tradizionale terapia analgesica con farmaci specifici (es. triciclici e anticonvulsivanti per dolore neuropatico, cortisonici per quello da ipertensione endocranica).
Tabella 9.Farmaci adiuvanti impiegati insieme a quelli della scala analgesica
Farmaci per il controllo degli effetti collaterali Psicostimolanti Analgesici secondari
• lassativi
• antiemetici
• sedativi notturni
• ansiolitici
• antidepressivi
• corticosteroidi
• antidepressivi
• anticonvulsanti
• miorilassanti

Se nel novero di questi farmaci entrano sicuramente quelli per il trattamento della stipsi, della nausea e del vomito, accennati in precedenza, le quattro categorie più importanti di uso comune tra i farmaci adiuvanti sono: i Fans, i corticosteroidi, gli antidepressivi triciclici e gli anticonvulsivanti.

Fans
I Fans infatti, oltre al loro valore di farmaci per il controllo del dolore al primo gradino della scala analgesica OMS, risultano estremamente efficaci nel trattamento del dolore da metastasi ossea insieme al "flash antalgico" (la morfina ha scarsa efficacia in questa indicazione), come pure nel trattamento del dolore da infiltrazione dei tessuti, da artrite o sierosite o da recente intervento chirurgico.

Cortisonici
I cortisonici risultano utili nel trattamento di sintomatologia algica dovuta a compressione nervosa, a distensione di visceri, a infiltrazione dei tessuti o a ipertensione endocranica. I dosaggi consigliati sono mediamente 4-8 mg di desametasone o 16-32 mg di metilprednisolone o ancora 20-40 mg di prednisolone per os 2-3 volte al giorno. In caso di compressione midollare acuta o di segni di ipertensione cranica grave, se opportuno, si possono somministrare 10-20 mg di desametasone o 40-80 mg di di metilpednisolone e.v. ogni 6 ore, con dosaggi di carico o ogni 6 ore per i primi 2-3 giorni che possono raggiungere per il desametasone i 40-100 mg.

Antidepressivi
Gli antidepressivi triciclici sono farmaci da impiegare come prima scelta nel trattamento del dolore neuropatico (che per definizione non risponde al trattamento con Fans o paracetamolo). Essi possono, in aggiunta, migliorare la depressione o l’insonnia che accompagna di frequente il decorso della malattia.
I tre farmaci più impiegati per questa indicazione sono l’amitriptilina, la nortriptilina e la desipramina. L’amitriptilina è quello più usato fino ad ora, ma è limitato nel suo impiego dalla frequente comparsa, alle dosi efficaci, degli effetti collaterali più tipici dei triciclici, in particolare secchezza delle fauci e sedazione, che sono mal tollerati, conducendo spesso ad autoriduzione o sospensione del farmaco. Gli ultimi due presentano mediamente con minore frequenza di questi effetti indesiderati e consentono quindi con più facilità di aumentare il loro dosaggio fino a raggiungere quello che risulta mediamente efficace senza intolleranze gravi.
Si deve iniziare il trattamento con bassi dosaggi, per esempio 10-25 mg al giorno, somministrati preferibilmente prima di dormire. Nei pazienti ansiosi o estremamente sensibili ai loro effetti, per evitare che non vogliano più assumere le somministrazioni successive per l’eccessiva sedazione, può essere utile far assumere inizialmente dosaggi ancora più bassi (es. 5 mg).
Per il trattamento del dolore neuropatico i dosaggi utili da somministrare sono nettamente inferiori a quelli antidepressivi, ma, affinché questi farmaci possano esprimere in pieno tutte le loro potenzialità adiuvanti, compresa la loro azione su depressione e insonnia, andrebbero impiegati, se tollerati, a dosaggi alti in monosomministrazione serale (pari rispettivamente a 100-150 mg per nortriptilina e a 150-300 mg per la desipramina).
Il tempo necessario per ottenere risultati è mediamente di 2-4 settimane dall’inizio della terapia e va spiegato chiaramente al paziente prima del suo inizio, per non creare aspettative in tempi brevi o scoraggiamenti e delusioni nel periodo in cui il farmaco deve raggiungere la sua concentrazione ematica ottimale per esprimere tutta la sua efficacia.
Eseguire il dosaggio ematico di questi farmaci, dove sia possibile, consentirà di controllare da vicino la compliance alla loro assunzione, di evidenziare eventuali alterazioni nel loro metabolismo e di prevenire gli effetti tossici da sovradosaggio.

Anticonvulsanti
In caso di persistenza del dolore neuropatico, nonostante si stia già effettuando una terapia con triciclici da alcune settimane a dosaggio ottimale, è indicato aggiungere a questi un farmaco anticonvulsivante. Esso va utilizzato da solo per questa indicazione in caso di intolleranza ai triciclici o per il trattamento di mioclonie da oppiodi. Questo tipo di farmaci è di primo impiego in presenza di un dolore neuropatico lancinante o con caratteristiche di scariche fasiche "simil-epilettiche".
I farmaci usati più di frequente in questo caso sono la carbamazepina e il clonazepam, a dosaggi per bocca di 200 mg da 2 a 4 volte al dì per la prima e di 0,5-1 mg tre volte al dì per il secondo. Anche quì è utile effettuare periodicamente un monitoraggio dei livelli ematici per valutare la compliance e prevenire problemi tossici da sovradosaggio e/o alterato metabolismo.
Come per i precedenti è utile iniziare la terapia con dosaggi ridotti, in genere 50% della dose più bassa e salire progressivamente, aumentando il dosaggio ogni 3-4 giorni, fino a raggiungere senza inconvenienti la dose efficace ottimale.

 

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