Problemi etnici nella terapia palliativa
Aggiornamenti per collegare l'evidenza all'esperienza
E.D. Pellegrino
Director & John Carrol Professor Georgetown University
Medical Center for clinical Bioethics Washington DC USA
Membro del Comitato Editoriale del JAMA

Il presente articolo apparso su JAMA del 20 maggio 1998 viene pubblicato in versione integrale sulla nostra rivista con l’assenso del suo estensore prof. E.D. Pellegrino membro del JAMA Editorial Board.
L’articolo viene pubblicato con il permesso di ESI Stampa Medica Excerpta Medica del Gruppo Reed Elsevier, Editore Jama Italia.
"In considerazione dello scopo educativo dell’iniziativa" citiamo testualmente "per tale autorizzazione non viene richiesto alcun royalty fee."
Un grazie particolare per tutto questo va alla dott.a Stefania Morandi Editorial Manager di Jama Italia che oltre ad essersi adoperata per farci ottenere in tempi rapidissimi l’autorizzazione alla pubblicazione da parte dell’Editore americano ci ha concesso, grazie alla sua sensibilità, l’autorizzazione alla pubblicazione gratuita che era di sua specifica competenza. A Lei vanno i nostri ringraziamenti e la nostra stima.

La terapia palliativa
La cura globale coordinata e finalizzata a fornire un sollievo dal dolore e dalla sofferenza nei malati terminali o incurabili è sempre stata una responsabilità morale del medico, indipendentemente dalla specialità praticata. Per molte ragioni questo imperativo morale è diventato oggi più importante che mai: i medici spesso controllano il dolore in modo inadeguato e l’opinione pubblica sta diventando più tollerante per quanto riguarda il problema del suicidio assistito, di fronte a pazienti che presentano un dolore intollerabile. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel negare il diritto costituzionale al suicidio assistito, ha sentenziato in modo inequivocabile sull’importanza di fornire un controllo adeguato della sofferenza e la medicina palliativa è diventata così a buon diritto una specifica area di competenza.
Questi sviluppi suggeriscono una revisione di alcuni problemi centrali delle cure palliative. Essi riguardano tutti i medici che curano i pazienti, senza tenere conto del motivo che causa la sofferenza e senza riguardo al fatto che essi siano o meno specialisti in terapia palliativa.

Alleviare dolore e sofferenza
Il fatto che siano disponibili moderni metodi per il controllo del dolore, accessibili ed efficaci rende moralmente obbligatorio che ogni medico sia ben informato sull’uso dei farmaci analagesici. Non controllare il dolore in modo adeguato equivale, sia moralmente che legalmente, ad una inadeguata condotta professionale (malpractice). Nonostante questo, a molti medici manca la dovuta conoscenza in questo campo o pur avendola essi usano gli analgesici con troppa parsimonia. Alcune paure riguardano il problema di rendere tossicodipendenti i pazienti, altre invece la responsabilità etica della morte qualora essa dovesse avvenire come risultato di una depressione respiratoria.
Queste paure non sono giustificate né da un punto di vista etico né di fatto. Per esempio, per quanto riguarda l’aspetto clinico si sa che i pazienti con dolore severo che ricevono notevoli dosi di oppiacei soffrono raramente, per non dire mai, di depressione respiratoria o di dipendenza (addiction), se le dosi somministrate sono prescritte in modo adeguato. Perfino la dipendenza, qualora dovesse insorgere in un paziente terminale, sarebbe un piccolo prezzo da pagare per alleviare il dolore. Un approccio più sfumato al controllo del dolore è giustificato invece nei pazienti cronici con malattia non terminale.
Dal punto di vista etico, dosaggi di analgesici sufficienti a controllare il dolore, che come effetto non intenzionale affrettano la morte, sono ammissibili se viene osservata la "regola del doppio effetto" (rule of double effect). Nonostante questa sia stata contestata, rimane importante se usata in modo corretto. Secondo tale regola un’azione che ha due effetti, uno buono e uno cattivo, è ammissibile se sono soddisfatte le seguenti cinque condizioni:
1. l’azione in se stessa è buona o almeno moralmente neutra (es. dare della morfina per sedare il dolore);
2. si intende procurare solo l’effetto positivo (es. sedare il dolore), non quello negativo (es. uccidere il paziente);
3. l’effetto positivo non si ottiene per mezzo di quello negativo (es. il controllo del dolore non dipende dal fatto di affrettare la morte);
4. non esiste una via alternativa per ottenere un risultato positivo (controllare il dolore);
5. c’è una ragione proporzionalmente grave per correre il rischio (es. controllare un dolore insopportabile).

Chiaramente, per giustificare l’uso di questa regola il paziente dovrebbe essere informato circa i rischi e dare un consenso che sia valido.
Le paure dei medici per le conseguenze legali derivanti dal loro comportamento dovrebbero essere ridimensionate. Nel decretare il diniego al diritto costituzionale al suicidio, con l’assistenza di un medico, la Suprema Corte di Giustizia ha affermato con forza l’obbligo per il professionista di fornire un controllo adeguato della sintomatologia dolorosa anche se questo dovesse involontariamente accelerare la morte. Il loro ragionamento risulta essere analogo a quello usato nella "regola del doppio effetto", sebbene essi non si riferiscano esplicitamente a questo. Infatti, l’asserzione sull’obbligo di controllare il dolore e la sofferenza è stata così inequivocabile da essere stata interpretata come un presunto "diritto costituzionale" alle cure palliative. Può essere invece problematico valutare se questo caso possa giustificare o giustifichi di fatto un alleggerimento delle regole federali che riguardano l’uso dei narcotici. Quello che risulta chiaro è che c’è un’autorizzazione etica e legale all’uso di qualsiasi dose di narcotici si renda necessaria, fino al punto in cui la morte non è indotta in modo diretto.
Se le dosi di oppiacei per controllare il dolore sono così grandi da determinare una profonda sedazione, anche questo sarebbe consentito, se la sofferenza non potesse venire eliminata in nessun altro modo. Questo non è, come sostiene un commentatore, uguale "all’eutanasia lenta" ("slow euthanasia"), dal momento che lo scopo del trattamento non è la morte del paziente. L’obiettivo della sedazione profonda è il controllo del dolore e della sofferenza, non quello di far sì che il paziente rifiuti cibo e bevande, causandone quindi la morte. Affrettare la morte per mezzo della sedazione terminale, violerebbe la regola del doppio effetto, dal momento che l’effetto buono (controllo del dolore) sarebbe ottenuto accelerando deliberatamente la morte.

Autonomia e consenso
Come per qualsiasi programma di trattamento, il consenso al trattamento palliativo deve essere ottenuto da pazienti in grado di esprimere le loro decisioni e non può essere dato per scontato. Si richiede un’informazione piena e completa, in modo che il paziente si renda conto che egli o ella saranno curati da un gruppo di lavoro multidisciplinare di medici specialisti, infermieri, assistenti sociali, religiosi, terapisti della riabilitazione, specialisti del dolore, psicologi e psichiatri.
Gli aspetti psicosociali della sofferenza richiedono un’indagine della vita privata del paziente, dei suoi rapporti interpersonali, e delle sue credenze religiose. Non tutti i pazienti possono aver piacere di sottoporsi ad un’indagine così allargata sulle cause della loro sofferenza. Essi possono desiderare solo un ottimo controllo del dolore e questo sarebbe comunque un loro diritto.

I pazienti che ricevono una terapia palliativa sono particolarmente vulnerabili e suscettibili alla suggestione di trattamenti non ortodossi. Molti americani già scelgono quella che viene chiamata la "medicina alternativa" a fianco della terapia convenzionale. Essi si rivolgono a questo tipo di trattamenti in modo più frequente quando la terapia tradizionale fallisce. Questo è chiaramente il caso dei pazienti incurabili. Se questi trattamenti non sono di per sé dannosi e se non compromettono l’efficacia delle cure palliative, non sembra esservi nessuna pressante ragione etica per negare al paziente questo diritto. I medici che ritengono "non etici" questi trattamenti devono ovviamente essere liberi di non parteciparvi. Essi dovrebbero però spiegare al paziente e ai suoi familiari perché non intendono usare questi metodi con rispetto e cortesia. Se non è possibile giungere ad un accordo, il paziente può cambiare medico o il medico può rispettosamente ritirarsi non appena un altro medico si dichiara disponibile ad intraprendere la cura.

Anche per quanto riguarda l’argomento dell’autonomia del paziente nasce il problema di dire la verità. Presumibilmente i pazienti sono consci della loro limitata prognosi di vita quando entrano in un programma di terapia palliativa. Una comprensione incompleta o parziale del problema, la negazione della limitatezza della cura o il volere che non sia loro ricordata la morte imminente, porta i pazienti a desiderare qualcosa di meno dell’intera verità. Ci sono, in certe culture, motivi che possono suggerire di discutere con la famiglia e non con il paziente. Per molte culture l’autonomia non è il valore centrale, come lo è invece nell’etica anglo-americana. Un chiaro compromesso con i costumi e le abitudini del paziente e della sua famiglia è preferibile ad un’insistenza esageratamente zelante che porti a gestire tutti i pazienti in un solo modo. L’inganno non è d’altra parte ammissibile. A domande dirette si deve rispondere in modo diretto. La decisione di quanta verità vada rivelata, quanto dettagliatamente e come scegliere il momento giusto rimane una questione di altissima sensibilità, per la quale non esiste alcuna formula generale adeguata. In riferimento a questo c’è l’obbligo di usare con cautela termini come "malato terminale". Le difficoltà nell’uso di questa terminologia sono state ribadite di recente. Tuttavia l’informazione sull’aspettativa di vita, anche quando la prognosi a breve termine è buona, è essenziale se la decisione da prendere non capita nel bel mezzo di una crisi o durante un rapido declino delle condizioni del paziente. Dire la verità, informare sulla prognosi a breve termine e sull’aspettativa di vita sono tre problemi strettamente collegati nella cura di qualsiasi paziente in cui la morte è prevedibile, ma non necessariamente imminente.

Etica di gruppo
La terapia palliativa è per necessità una cura gestita in gruppo, dal momento che nessun singolo professionista potrebbe forse far fronte da solo a tutte le necessità di un paziente terminale. Questa situazione introduce problemi etici speciali collegati all’attività del gruppo di lavoro.

La questione della responsabilità è fondamentale. A prima vista ciascun membro dell’équipe può essere responsabile soltanto del proprio ruolo nel gruppo. Tuttavia i membri del gruppo non possono evitare la responsabilità per decisioni e azioni del gruppo alle quali partecipano spontaneamente e in modo cooperativo. C’è poi il problema di chi ha il comando del gruppo e quello di definire fino a che punto arriva questa autorità. Idealmente il comando dovrebbe essere affidato alla figura più vicina ai bisogni predominanti del paziente. Questo ruolo potrà quindi ruotare tra i membri dell’équipe o essere affidata a quello che svolge funzioni di segreteria, senza però che questi abbia l’autorità definitiva. I medici non possono arrogarsi l’autorità decisionale su altri membri del gruppo per questioni di etica. Ciascun membro del gruppo è responsabile del proprio comportamento morale. Ne deriva inevitabilmente, acconsentendo a questo, che il medico che scrive un ordine, non può evitarne la complicità morale, attribuendo la propria azione alla "volontà del gruppo". Quando i membri del gruppo sono in disaccordo, una commissione etica può risultare utile per giungere a definire un programma di intervento che sia moralmente difendibile. Se alla fine questo non è possibile, il paziente (o il suo tutore) dovranno decidere se continuare o meno il rapporto instaurato con il gruppo di lavoro. Nella complessità delle dinamiche tra i diversi membri dell’équipe la responsabilità di una decisione può essere persa di vista. Alcuni possono evitare di dissentire per non offendere i colleghi, altri possono infatuarsi con la cosiddetta "saggezza di gruppo" ("team wisdom") a danno della saggezza del paziente per quanto riguarda la sua specifica malattia. Altri ancora possono essere più preoccupati dell’angoscia di chi si occupa del malato, piuttosto che di quella del paziente stesso. Un gruppo può sviluppare un’autoconvinzione su quello che è giusto fare e dare così un’autogiustificazione alle proprie decisioni, infantilizzando in questo modo il paziente che esprime le proprie scelte o decisioni. Il gruppo di lavoro in terapia palliativa deve riconoscere la centralità del paziente, pur mantenendo la propria integrità personale e professionale.

Evitare l’ideologia
Infine, la terapia palliativa è così moralmente ammirevole, sia nei suoi obiettivi che nella metodologia, che può finire per diventare un’ideologia: il solo "giusto e vero" modo di morire. Questo medicalizza e professionalizza un processo che dipende così tanto da una scelta personale di attenzione e amicizia per il paziente, più che dalle capacità tecniche specifiche. I Medici Generali, gli amici e i familiari possono essere più sensibili a questa dimensione del curare di quanto lo siano certi specialisti in terapia palliativa. Se la terapia palliativa diventa una ideologia, può scoraggiare e spiazzare gli amorevoli sforzi della famiglia e degli amici, sommergendo il paziente "nel sistema", e frustrando gli scopi e i propositi della palliazione stessa.

Gli oncologi hanno la responsabilità di riconoscere quando i benefici di un trattamento chemioterapico o radiante hanno raggiunto il loro limite così da non ritardare senza motivo il conforto e la terapia palliativa. Proprio per questo sarebbe utile che gli oncologi e gli altri medici specialisti coinvolti nella cura dei pazienti morenti e di quelli cronicamente sofferenti, passassero un po’ del loro tempo durante il tirocinio in un hospice o in un servizio di terapia palliativa.
Gli oncologi sono orientati comprensibilmente ad una terapia aggressiva, e questo è spesso di vantaggio ai pazienti, ma non sempre. I Medici Generali d’altra parte sono più inclini alla palliazione e muovono in questa direzione forse troppo presto. La loro formazione professionale dovrebbe includere l’acquisizione di una maggior familiarità con i trattamenti aggiornati di terapia delle malattie neoplastiche.

Dal punto di vista del paziente è bene che sia gli oncologi che i Medici Generali sappiano riconoscere i propri pregiudizi nel curare i malati inguaribili. Essi devono comunicare meglio e lavorare in modo integrato. La terapia palliativa è, se condotta in maniera adeguata, fondamentalmente una cura globale della persona. Essa dovrebbe far parte del trattamento di tutti i pazienti, sia che stiano ricevendo un trattamento anticancro aggressivo, sia che ricevano un trattamento in un hospice. I Medici Generali, gli oncologi e gli specialisti sono obbligati a coordinarsi nella cura dei loro pazienti perché lo richiede il benessere del paziente che stanno curando.

La palliazione deve essere al servizio delle speciali necessità che presenta il malato incurabile, senza fare esagerato affidamento su programmi rigidi che troppo spesso vanno avanti per loro conto. Perfino un’iniziativa così meritoria come una palliazione globale del dolore e della sofferenza deve essere praticata all’interno di un quadro ben stabilito di principi etici. La compassione, come qualsiasi sentimento umano, può essere distorta e diventare così uno strumento di potere professionale piuttosto che uno stimolo per favorire il benessere del paziente.

Traduzione di C.Blengini