Morfina, breve storia di un farmaco.
C.Blengini Medico Generale - Dogliani (Cuneo)
E.Pugno Medico Chirurgo - Torino

La morfina rappresenta una delle numerose sostanze contenute nel succo di una pianta, il Papaver somniferum, probabilmente originaria dell’altopiano anatolico. Rappresenta il principale costituente dell’oppio, il lattice essiccato ottenuto per incisione delle capsule immature. Conosciuto da millenni, venne usato già ai tempi degli egiziani e dei sumeri. L’etimologia del termine oppio deriva da una parola di origine greca, opos, che significa appunto "succo".

L’uso dell’oppio è documentato nei più antichi documenti scritti che ci siano pervenuti. Le antiche popolazioni della Mesopotamia conoscevano bene le proprietà euforizzanti del succo d’oppio; i Sumeri, già nel 4000 a.C., definivano con un ideogramma ben preciso il papavero da oppio come pianta della gioia.

L’oppio usato dagli Egizi come calmante per i bambini, era l’ingrediente principale del pharmakon nepenthes che Elena versa nel vino durante il banchetto con Telemaco alla corte di Menelao (Omero. Odissea, IV, 219-228).

Nella mitologia greca e romana l’oppio era usato nel culto ufficiale di Demetra, la dea della terra feconda, sorella di Zeus, che pare usasse il papavero per alleviare il dolore provocatole dal rapimento della figlia Persefone. Nelle sue raffigurazioni, questa divinità tiene in mano, tra le spighe di grano, il papavero, presente anche nelle decorazioni dei suoi altari e come insegna delle sue sacerdotesse. Il papavero è spesso presente nelle mani di Morfeo, dio del sonno, mentre Nyx, dea della notte, dispensava papaveri agli uomini.
L’oppio era presente in moltissimi tipi di pozione (teriaca) messi a punto dai medici greci e romani. La teriaca più nota era il galenos (soave) elaborata dal cretese Andromaco il Vecchio, medico della corte di Nerone: era raccomandato come un’infallibile panacea. Galeno prescriveva tale pozione, diluita in alcool e stemperata in abbondanti dosi di miele, per molte patologie (sintomi di avvelenamento, cefalee, problemi di vista ed epilessia) e con queste curò l’imperatore Marco Aurelio sino a farlo divenire dipendente dall’oppio, secondo i resoconti clinici dello stesso medico.

Venne impiegato comunemente dai popoli di derivazione araba e da questi fu diffuso in Asia e, successivamente nel periodo delle crociate, in Occidente, dove se ne riscoprì l’impiego, dimenticato nel periodo medioevale. Già nel ’500, il grande Paracelso ne raccomandava l’impiego magnificandone le virtù sonnifere, analgesiche ed antidiarroiche. Sydenham, luminare medico del ’600, ne tesseva le lodi, scrivendo verso la fine di quel secolo: "Tra i rimedi che la misericordia divina ha donato all’uomo per lenire le sofferenze, nessuno è così universale ed efficace come l’oppio". Era allora venduto liberamente e consumato dapprima per bocca e, dall’Ottocento in poi, anche fumato.
L’assunzione voluttuaria di questa sostanza era considerata all’epoca un vizio meno importante dell’abuso di alcolici. L’oppio, ormai prodotto in larga scala, diveniva una merce acquistabile a basso prezzo; in Inghilterra veniva venduto a prezzi da cinque a dieci volte più bassi di quelli della birra e dell’alcool. Le enormi piantagioni inglesi d’oppio in India ed il basso costo della manodopera, ne permettevano la commercializzazione a prezzi concorrenziali. Questo determinò, soprattutto nella classe operaia, l’instaurarsi di un’epidemia d’abuso ancora più grave di quella dell’alcolismo. Contemporaneamente, nel diciannovesimo secolo, l’avvio della produzione di farmaci a livello industriale favorì un’impressionante proliferazione di rimedi a base d’oppio, largamente pubblicizzati e distribuiti in modo capillare.

Nello stesso periodo, furono fondamentali due scoperte che determinarono la svolta nell’impiego dell’oppio. La prima ad opera di Sertürner, che nel 1806 isolò in laboratorio quella che sarà la morfina, chiamandola principium somniferum. Solo nel 1811, Sertürner definì chimicamente questa sostanza come alcalina e la chiamò morphium. Nel 1817, Gay-Lussac tradusse il suo lavoro e lo pubblicò sul prestigioso Annals de Chimie di cui era editor. Riconobbe non solo l’importanza della scoperta del principio attivo dell’oppio, ma anche quella dell’isolamento di una sostanza estratta da una pianta con caratteristiche basiche e contenente azoto. Tutti i composti isolati fino ad allora dalle piante erano, infatti, neutri o acidi. Prevedendo l’esistenza di molte altre sostanze simili di origine vegetale, propose per la prima volta una standardizzazione della nomenclatura della chimica organica; suggerendo di modificare il nome morphium aggiungendo il suffisso -ina, da cui "morfina". L’anno successivo, venne introdotto il termine "alcaloide" nella chimica organica per indicare composti azotati e con proprietà basiche isolati da piante. La struttura chimica della morfina è stata chiarita nel 1923 da Robinson e Schöpf ed essa venne prodotta per sintesi solo nel 1956 da Gates.

La seconda grande scoperta che modificò la storia di questa sostanza fu quella dell’ago ipodermico (Alexander Wood, 1853). Si verificò così, con la somministrazione di oppioidi in vena, la prima comparsa di effetti estremamente intensificati, vista, la notevole potenza e rapidità d’azione della sostanza per questa via, con aumento sia dei suoi effetti positivi che negativi. La scoperta dell’efficacia del suo impiego per via parenterale determinò un largo uso di tale farmaco in guerra, per lenire il dolore dei soldati, mutilati da orrende ferite d’arma da fuoco. Cominciarono così a comparire tra i militari i primi casi di tossicodipendenza da morfina, che andarono ad aggiungersi a quelli tra i fumatori d’oppio, prodotti dalle fumerie gestite dagli immigrati cinesi in America. Nacque così il fenomeno della tossicodipendenza che persiste ancora immutato nella sostanza ai nostri giorni, ma numericamente in forte espansione.

Da allora si susseguirono sintesi di nuove sostanze oppiacee ed allucinogene, che nate in laboratorio per motivi scientifici, andarono ad accrescere il già notevole armamentario a disposizione del mercato della tossicodipendenza. Valga come esempio l’impiego dell’eroina. Nel 1898, la Bayer annunciava al mondo di essere finalmente pronta a commercializzare questo farmaco miracoloso utile "contro tutti i dolori, come sedativo della tosse, e per la cura dei tossicomani" con una massiccia e capillare campagna pubblicitaria. Foglietti illustrativi, brochures e campioni gratuiti della sostanza vennero inviati a medici e a farmacie dei paesi industrializzati. Era la diacetilmorfina, il cui nome commerciale, eroina, derivava dalla parola tedesca heroisch, energico, eroico, dato che sembrava essere un farmaco potente ed apparentemente privo di effetti collaterali. Nata nell’intento dei suoi ideatori come sostanza in grado di disassuefare i tossicodipendenti dall’uso di morfina (di qui il suo nome) è finita invece miseramente sul mercato a soppiantare l’impiego della prima nelle preferenze degli spacciatori e dei consumatori voluttuari.

Si assiste così ad una progressiva escalation d’impiego di queste sostanze per uso voluttuario, coltivata e blandita dal mercato clandestino, che trova nella loro vendita una fonte sempre maggiore di guadagno. Si determina così un paradosso che ha però risvolti drammatici nella cura degli ammalati afflitti da dolore. La comparsa di una legislazione in molti casi estremamente rigida, volta a tutelare dall’abuso dell’impiego di queste sostanze a scopo voluttuario, si rivela nei fatti una pesante barriera alla loro prescrizione a scopo curativo nei casi in cui può rivelarsi determinante oltreché efficace. Nascono così le paure, alimentate nell’immaginario collettivo da un equivoco di fondo mai abbastanza chiarito: la tendenza cioè a sovrapporre gli effetti negativi di questi farmaci, determinati dalla tossicodipendenza, con quelli positivi, indici di efficacia, determinati dal loro corretto impiego nelle situazioni di dolore. Ne deriva così che mentre la disponibilità di oppiacei sul mercato clandestino si rivela ogni giorno in aumento e in grado di rispondere a richieste diversificate, il malato terminale si vede ridurre quotidianamente lo spazio prescrittivo per queste sostanze dalla paura dei medici e dei farmacisti di incorrere in sanzioni penali, che il legislatore aveva approntato unicamente per scoraggiarne l’uso improprio.

Sono sotto gli occhi di tutti i dati sconsolanti dell’impiego di questi farmaci negli ammalati in fase terminale nel nostro "civilissimo" paese (come purtroppo in molti altri "altrettanto civili"), a cui fa da contro altare l’alta percentuale di soggetti che denunciano dolori di entità da moderata a grave, perché non curati in modo adeguato. Se è ormai storia ventennale la proposta dell’OMS per la cura del dolore negli ammalati di cancro, questi dati sottolineano ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che l’attenzione ai problemi del malato terminale passa innanzi tutto attraverso l’applicazione di protocolli internazionali validati per il trattamento del dolore. Ma per ottenere una svolta efficace si dovranno approntare nel nostro paese, come è già stato fatto in altre realtà con risultati lusinghieri, momenti di formazione trasversali per tutta la categoria: Medici Generali, ospedalieri, specialisti territoriali, farmacisti, infermieri e operatori sanitari che portino a condividere la filosofia del trattamento del dolore e di quella delle cure palliative.
Solo con un cambiamento epocale nell’immaginario collettivo di operatori sanitari e pazienti si potrà giungere in tempi brevi ad una cura efficace della sofferenza che possa migliorare in modo sostanziale la qualità di vita di questi soggetti nella fase terminale della malattia. I media e la carta stampata potrebbero giocare un positivo ruolo di servizio a tutto il paese nel promuovere in modo efficace e con strumenti adeguati questo obiettivo.

 

Bibliografia

1. Rompp Lexicon, Naturstoffe, Thieme, 1997
2. Sneader W. Drug Prototypes and their Exploitation, Wiley, 1996
3. Musto DF. Opium, Cocaine and Marijuana in American History, Scientific American, 265, 20-27, 1991
4. Riva E. L’universo delle piante medicinali, Ghedina e Tassotti, 373, 1995