Rivista SIMG (www.simg.it)
Agosto 1998

Agosto, dottore mio non ti riconosco
I cittadini e noi:  fiducia, inefficienza e insoddisfazione

A. Pagni -Presidente SIMG

"Processo ai medici - rapporto su una professione sempre più discussa", era questo il titolo della copertina che la rivista "Il mondo" ci ha dedicato in agosto.
Dodici pagine di commenti, a conforto di una indagine demoscopica condotta dalla CIRM su un campione di 352 intervistati, dalla quale risultava, tra l’altro, che nel 19% dei cittadini era diminuita la fiducia nei medici in questo ultimo anno, che dopo il caso Di Bella il 27% degli italiani aveva peggiorato il suo giudizio su di loro, e che dopo la vicenda del doping al tour di Francia questa percentuale era salita al 34%.
Dalla stessa indagine risultava poi che il 27% dei cittadini era insoddisfatto del medico di famiglia perché scarsamente capace di comunicare con il paziente, il 26% perché non segue con attenzione lo sviluppo delle condizioni cliniche, il 25% perché presta poca attenzione, il 9% perché è difficilmente reperibile, il 2% perché usa un linguaggio incomprensibile, mentre il restante 11% degli intervistati non esprimeva alcuna opinione.

Come si vede, anche se le indagini demoscopiche hanno un valore relativo, non si metteva in dubbio la capacità "tecnica" del medico di famiglia ma le sue "attitudini relazionali e comunicative".
È tuttavia utile prendere lo spunto da questa indagine per avviare una riflessione sul rapporto medico/cittadino, divenuto oggi sempre più difficile, anche perché i mass-media ne parlano molto (troppo), laddove un tempo se ne occupavano soltanto i ricercatori e gli studiosi di fenomeni sociali.

Perfino nelle facoltà di medicina se ne parlava, anche se con altri scopi e obbiettivi, se è vero che il Prof. Sogliano, nel 1870, insegnava a Napoli, ai suoi studenti che: "il consulente libero professionista, si lascia dietro di sé la folla dei medici curanti, poiché si è coltivato negli studi ed ha ottenuto, per ragion di sommo merito, l’onor del primato, dell’opinione pubblica" recidendo la dipendenza da una clientela che continua "ad importunare i medici curanti chiede loro ragione del trattamento proposto, della sua promessa e mancata efficacia e spesso della morte avvenuta per la quale non poche volte sono chiamati in colpa".

A distanza di più di cento anni, anche se questa gerarchia di valori è rimasta immutata nella opinione di molti cittadini, la differenza è che oggi non sono più "importunati" soltanto i medici curanti ma anche i consulenti, e "i grandi medici", sempre più spesso accusati di malpractice, di avidità di danaro e di disumanità, e ai medici curanti si chiede di svolgere il ruolo di agenti del traffico.

Nel 1956 Szasz e Hollender, elaborando la tesi funzionalista di Parsons, formularono l’ipotesi di tre tipologie basilari della relazione medico/paziente: attività/passività, il cui prototipo era quello del rapporto tra un genitore ed un bambino, guida/cooperazione, tipica del rapporto tra un genitore e un figlio adolescente, e infine un rapporto di partnership tra adulti nel quale il medico aiuta il paziente ad aiutare se stesso.
Questi tre modelli di interazione medico/paziente potevano anche essere presenti, tra gli stessi attori, a seconda della gravità o della diversa situazione clinica nella quale si incontravano.
Nonostante la asimmetria della relazione con il paziente, caratterizzata da una ineliminabile disuguaglianza, questi AA. ritenevano che essa fosse comunque "armonica", in quanto basata sulla accettazione consensuale e sulla complementarità dei ruoli.

Alcuni ricercatori osservarono tuttavia che esisteva anche una quarta tipologia della relazione, trascurata da S. e H., nella quale chi "guida" è il paziente e il medico "coopera" nel soddisfare le richieste del paziente stesso, prescrivendo farmaci, rilasciando certificati o richiedendo visite specialistiche non motivate da una esigenza clinica reale.
Una tipologia di relazione, quest’ultima, che compiace e "soddisfa" il paziente ma non ha nulla a che vedere né con la "fiducia" nel medico né con la "efficacia" della prestazione, ma inverte pericolosamente soltanto la asimmetria dei ruoli.

Intorno agli anni ’70 fu proposta un’altra ipotesi di interazione tra medico e paziente vista come uno "scontro di prospettive" e di latente e potenziale conflitto tra i due originato dai diversi interessi, aspettative, conoscenze e valori del paziente rispetto al professionista.
Freidson, autorevole esponente di questa scuola di pensiero, scrisse in proposito: "la mia tesi è che i mondi separati dell’esperienza e di riferimento (cognitivo) del profano e dell’operatore professionale sono sempre in conflitto potenziale l’uno con l’altro".
Le diverse priorità e interessi, che caratterizzano i due attori della relazione terapeutica, una differente valutazione della gravità o meno di un quadro morboso e, le aspettative contraddittorie sui ruoli del medico e del malato, sono alla base della conflittualità latente che si instaura nella relazione terapeutica secondo questa tesi.
Ma i suoi sostenitori erano anche persuasi che queste potenziali fonti di tensione raramente sfociassero in un vero conflitto.
Esse sarebbero state disinnescate e risolte mediante l’attuazione di strategie, tese ad influenzare l’andamento della consultazione nel corso della quale ognuno dei protagonisti della schermaglia cercava di raggiungere il proprio obbiettivo. Né è da dimenticare che, nonostante quel che si vuol fare apparire, non sono pochi anche oggi i pazienti che si aspettano che il medico assuma un ruolo "genitoriale".

Probabilmente questi modelli di relazioni, seppure mantengono tuttora validità in un rapporto inter-individuale, dovrebbero essere rivisti alla luce degli sviluppi e dei cambiamenti avvenuti sia nella organizzazione della assistenza ai malati che nello scenario sociale nel quale si organizzano le cure. Da un lato la prevalenza delle malattie croniche e dei tumori, che si possono curare ma spesso non guariscono, ha comportato che il rapporto tra il medico e il paziente, fosse "diluito" nel tempo tra curante e consulente/i.
L’ampliamento e la frammentazione delle conoscenze e competenze specialistiche e delle abilità tecnologiche ha fatto sì che per la stessa malattia quel paziente sia visto da più persone anche in équipe.
Ciò ha generato una situazione nuova per la quale manca una definizione degli standard di competenza tra curante e consulente, per individuarne i ruoli e le relative responsabilità agli occhi dei cittadini.
In questo senso si spiegano le lamentele e il fatto che spesso i cittadini evochino con nostalgia la figura del medico curante del passato, e lo vogliano oggi più vicino, anche se poi sono i primi a sottovalutarlo e a demotivarlo, dimenticando che una delle caratteristiche fondamentali di un ruolo è la "reciprocità". Il ruolo infatti non riguarda soltanto il comportamento che ci si aspetta da un individuo in una data situazione, ma anche il comportamento degli altri nei suoi confronti.

Dall’altro lato è indubbio che siamo in presenza di un mutamento sociale profondo, che modifica rapidamente i comportamenti individuali creando nuovi bisogni e valori, e uno scontro aspro tra chi intende mantenere gli assetti esistenti e chi vuole trasformarli recidendo i vincoli del passato.

E poiché la "qualità della vita" è divenuto un bisogno primario, e un programma-progetto della attuale società, ciò spiega l’esplosione di interesse sociale, un po’ confuso e contraddittorio, che si ha oggi per la medicina e la organizzazione sanitaria.
"Fare "bene" medicina – ha scritto S. Spinsanti – comporta ai nostri giorni conoscenze che eccedono quelle tradizionalmente richieste al medico".
La professione medica ha rappresentato finora un gruppo sociale specifico con una propria "subcultura", un proprio codice di comportamento, una organizzazione gerarchica dei ruoli nel rapporto medico/paziente, una concezione della malattia, come entità, basata sulla razionalità della scienza, sulla dominanza dei dati fisico-chimico, sulla oggettività e la misurazione quantitativa dei fenomeni biologici, e sulla netta separazione del corpo dalla mente.

È ancora attuale un medico ippocratico, paternalistico, precettivo e autoritario, che opera per il bene del paziente, lo cura ma lo "ascolta" poco e non "si prende cura" della persona e del suo malessere? Ma in una società nella quale il cittadino rivendica autonomia e la libertà di sottoporsi, o meno, alle cure proposte, e il diritto di autodeterminarsi, davvero si vuole un medico che ci ascolti e si prenda cura di noi?

È ancora soddisfacente il paradigma di una medicina di tipo esclusivamente oggettivistico-naturalistico, supportata dalla tecnologia, in una società pervasa dalla speranza, anche irrazionale di guarire ad ogni costo dalle attese miracolistiche, dalla magia, dallo spiritualismo orientale e dal rifiuto della morte?

Dobbiamo esaminare serenamente i cambiamenti in atto in questa epoca di transizione, senza cedere alle mode e alla piazza, ma anche rinunciando a sterili impermalimenti o rifugiandosi nella protezione dei soli aspetti tecnici della professione.

È proprio il Medico Generale a dover avviare per primo questo processo di autoanalisi e di rifondazione del proprio ruolo perché rappresenta l’anello più importante in teoria, ma il più debole di fatto, del percorso diagnostico e terapeutico del paziente.

Un percorso egemonizzato dalla medicina specialistica e riduzionistica, vincolato (solo per il Medico Generale) da tetti di spesa in gran parte condizionati da altri, e nel quale il Medico Generale è sempre più frequentemente espropriato, nel suo approccio olistico e globale alla persona, anche dalle medicine non convenzionali.
Per questo è indispensabile ricercare nuove "alleanze" con i cittadini, non tanto per opportunità tattico-strategica in vista di reciproci benefici, quanto piuttosto per ritrovare insieme con loro la misura della riconoscibilità percepita di un sapere, un sapere fare e un saper essere specifici indispensabili per la qualità della vita.
È inevitabile, e rimarrà immutata, la dinamica dialettica dell’incontro-scontro di prospettive tra medico e paziente, stante la asimmetria del rapporto, ma è necessario che non assuma i connotati di un conflitto insanabile come quello che si va profilando oggi tra medici e cittadini.

Non ci si illuda però che barattando la fiducia nella autorevolezza e nella empatia del medico con la soddisfazione consumistica ed egoistica del paziente si ritrovi una alleanza su basi stabili e si rafforzi il ruolo del medico.

Il cittadino deve fare il cittadino e il medico il medico, senza confusioni di ruoli, evitando quest’ultimo di farsi portavoce di un concetto di "cittadinanza", emergente nella nostra società, che si sostanzia in termini prevalenti di elargizione assistenzialistica dello stato a favore dei gruppo più forti o più rumorosi, piuttosto che in termini di responsabilità e di corresponsabilizzazione di tutti.
Se nell’antichità il cittadino aveva soltanto doveri, è con la rivoluzione francese che si è avviato quel processo che ha consentito di conseguire prima le libertà civili (libertà dallo Stato), poi i diritti politici (libertà nello Stato) e infine i diritti sociali (studio, sanità e lavoro mediante lo stato).
La libertà tuttavia non è un valore assoluto ma un valore relativo, ed esiste concretamente solo nell’ambito di un determinato ordinamento politico nel quale diritti e doveri sono coessenziali per il rafforzamento dei legami sociali tra i membri di una comunità politica.
Oggi negli stati democratici si tende a coniugare i diritti di libertà ed uguaglianza con i doveri della solidarietà e ad accordare l’esigenza della partecipazione con la governabilità, e la giustizia con il mercato.

Una progressiva estensione dei compiti dello Stato aveva fatto prevalere il modello universalistico di tutela della salute, e l’utopia di uno Stato che soddisfa tutti i bisogni di salute dei cittadini, ma la divaricazione crescente tra domanda e offerta in un regime di scarse risorse la reintroduzione del mercato e della concorrenza pubblico/privato in sanità, hanno aperto la strada ad una nuova e diversa considerazione dei diritti e alla possibilità di correggere i comportamenti consumistici e le diseconomie presenti nello stato sociale.
L’alleanza tra medici e cittadini in difesa del welfare state, quale insostituibile conquista di civiltà, si realizza soltanto se insieme senza rinunciare alla propria autonomia contribuiranno a favorire un coraggioso riassetto istituzionale e organizzativo dell’esistente, e si ritroverà una conciliazione del principio di beneficialità del medico con la riaffermazione della reciproca fiducia.
L’esasperata rivendicazione di diritti dei cittadini, senza doveri, condurrà inevitabilmente alla distruzione dello stato sociale e ad una assistenza sanitaria pubblica per i deboli e i poveri, e una privata per le famiglie forti ed abbienti.